di Rita Bosso
Raffaele Morrone ‘u Barbariello, uno degli ultimi muratori in grado di costruire volte a chiancarelle (Foto Archivio Pacifico)
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Qualche anno fa l’architetto Giuliano Massari ha pubblicato il volume E’ stata dura, le cui pagine sono dense di informazioni e di dati sulle tecniche costruttive in uso sino alla metà del Novecento.
La tavola che segue, tratta dal libro, mostra lo schema costruttivo di una volta armata a chiancarelle che, come spiegato nella stessa pagina, sono “tronchetti di castagno, spaccati longitudinalmente a metà, usati per le costruzioni di volte e di solai”.
Nel capitolo dedicato alle volte si legge che l’arco è quasi sempre a sesto ribassato; disegnarlo è cosa da niente se si dispone di carta e di compasso ma in cantiere la carta e il compasso non ci sono e, se ci fossero, sarebbero completamente inutili. Poco male: la geometria non è nata su un tavolo da disegno, all’epoca la carta neanche esisteva.
Secondo Erodoto, la geometria mosse i primi passi in Egitto tremila anni fa, allorché il faraone Sesostri assegnò a ciascun suddito un terreno di forma quadrata a fronte del pagamento di un tributo. Quando il Nilo inondava parte dei terreni bisognava effettuare una nuova misurazione e ricalcolare il tributo; a queste operazioni erano addetti gli agrimensori del faraone chiamati arpenodapti, annodatori di funi.
Sul campo riga e compasso sono del tutto inutili, servono invece le funi.
In teoria, con un righello si può misurare qualunque lunghezza, basta riportare il righello un certo numero di volte; nella pratica si otterrebbe uno zig-zag e la relativa misura sarebbe inutilizzabile. Nella pratica bisogna tendere funi, non a caso restano in uso espressioni quali Tirare una retta, Tirare la perpendicolare. Tirando una fune si traccia un segmento; mantenendo fisso un estremo della fune si disegna una circonferenza. Circonferenza e segmento: al geometra euclideo altro non serve, le uniche costruzioni ammesse sono quelle con riga e compasso.
Arpenodapti all’opera nell’antico Egitto
Massari scrive che, per tracciare l’arco a sesto ribassato, il capomastro ricorre in genere alla costruzione a tre centri. Si tratta di costruire tre circonferenze a due a due tangenti, ossia che si raccordino senza angolosità.
Ne ho trovate diverse versioni in rete; quella che mi sembra più adatta a un cantiere prevede:
- La tavola orizzontale (per semplicità di calcolo supponiamo che sia lunga 4 metri), divisa in quattro parti uguali;
- Una fune lunga 2 metri con cui si tracciano le circonferenze di centro C1 e C2; sia C3 il punto di intersezione;
- Con centro C3 e raggio opportuno si traccia il terzo arco di circonferenza (freccia verde);
- I tre archi evidenziati da frecce sono tra loro tangenti.
Ho fatto qualche conto.
– l’arco in verde appartiene a una circonferenza di raggio 3 metri (risultato ottenuto imponendo la condizione di tangenza);
– il triangolo di vertici C1, C2, C3 è equilatero di lato 2 metri, quindi la sua altezza è 1,73 m;
– l’altezza della volta si ricava per differenza, sottraendo alla lunghezza del raggio l’altezza del triangolo; il dato teorico per l’altezza della volta è dunque 1, 27 m, compatibile con il dato sperimentale riportato da Massari: altezza= un terzo della lunghezza tavola= 1,33 m.
Anche i due triangoli laterali ( quello a sinistra ha vertici in C1 e nei due punti di contatto tra le circonferenze, l’altro è simmetrico) sono equilateri: risultato tres chic.
Disegnato l’arco a sesto ribassato, si passa alla realizzazione della volta in tufo; segue la formazione del lastrico con lapillo e calce. Questo impasto deve essere battuto per tre giorni, in modo che si consolidi e si comprima; ad operazione conclusa lo spessore risulterà ridotto di un terzo.
La “battuta dell’asteco” è eseguita da una decina di uomini che si muovono in circolo e battono con un palo di legno (pentòne); per darsi il ritmo cantano, forse qualcuno ha portato un corno o un tamburello.
Ne è uscita una bella danza popolare; nel filmato da YouTube – ‘A vattut’ ‘ell’astreche – si esibisce la Scuola del Folclore di Ischia.
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