di Francesco De Luca
Zi’ Tore si stava godendo il sole sull’aia. Da “Scarfisso” guardava la piccola insenatura di “Cala Feola” e in lontananza Palmarola era evidenziata dal bianco che le increspava la sagoma.
Scendevo per le scale che dalla strada attraversano tutta la collinetta che degrada fino alle “piscine naturali”. Ai lati degli scalini si dipartivano, di qua e di là, i viottoli conducenti alle case.
Vidi zì Tore che oziava, col viso all’aria, e lui vide me che muovevo il paesaggio, zigzagando nel viottolo.
Mi chiamò. Non aveva niente da dirmi ma il desiderio di scambiare quattro parole fu più forte della bellezza dello scenario, ormai consueto.
Lo raggiunsi. Ci mettemmo a parlare del tempo, o meglio della primavera bislacca che a tratti prometteva che si potesse presto gettare in acqua la barca per andare scoglio scoglio a sentire il brivido che dà la lenza quanno ’a perchia ha abboccato e si dimena, strattonando vanamente il nailon.
Zi’ Tore, da verace pescatore, non aveva dimenticato il gusto primitivo di chi trae dal mare i frutti del suo adescamento, e io, conoscendo questo debole, offrivo il motivo per alimentargli il piacere.
Così come per me ascoltare di chiane, di segnali, di pesche fortunate, di defatiganti attese era un piacere vero, perché l’ esperienza vissuta è affascinante nel racconto dell’ interprete. Tanto più che costui era un bonario vecchietto, umile nel suo e contento.
Zia Mena, la moglie, uscì dalla casa e, nell’ aprire la porta, diede modo al profumo fragrante della cucina di spandersi. Feci l’atto di annusare l’aria con più attenzione e zia Mena se ne accorse: – Stongo facenno ’a coccia. Federico, nepoteme, ’u figlio ’i Sirverio, ce ha purtato ‘nu fellone.
“A coccia” è il nome dialettale del carapace della grancevola, o fellone, ma indica pure un “piatto “. Fatto di pane imbevuto di tutto quanto è contenuto nel carapace, allorché, una volta bollito l’animale, si separa il corpo dal carapace stesso.
E’ una sorta di “pan bagnato” condito, nel momento di servire, con aglio, olio e prezzemolo.
Nella cottura il fellone, o grancevola, emana un afrore forte e penetrante. La “coccia” ne rinnova il vigore, impregnando l’aria d’intorno.
– ‘A vuò assaggià…? Aspetta ca ce mecco ’nu poco ’i petrusina, e po’ se po’ mangia’ – Zia Mena mi invogliava con la consueta bontà.
Il piatto ha un gusto forte. Forse eccessivo, buono, come potrebbero suggerire i moderni gourmet, per l’antipasto.
Sa di mare, di aspro, di inusuale. Come la vita sull’isola.
Il fellone sale dalle profondità degli abissi per un abbraccio che ridà alle acque la vita e ricambio alla specie.
Nella poca acqua delle cale, che si intiepidiscono al sole d’ aprile, i felloni si cercano e si scambiano il seme della fecondità in un abbraccio che sa di umano.
Le chele dell’uno si intrecciano nelle chele dell’altra, i ventri, combaciando, permettono alla vita di replicarsi.
Riprendono subito dopo il fondo. Per un breve periodo macchiano di rosso i fondali, gli scogli, la verde posidonia, quando nel cielo il volo delle quaglie esauste è atteso dai voraci gabbiani.
Un attimo, nell’eterno ruotare delle stagioni. La stagione più bella.
Ma riprendo lì dove ho lasciato la ” lanaperla “. Questo nome si sostanzia anche di un’ altra verità. Che è la perla. Veramente in alcune (non in tutte ) è presente una piccola perla bianca. Priva di valore.
Ma ad essa è legata una conseguente particolarità biologica. La sua secrezione (generatrice della perla) è favorita dall’attività, all’interno della lanaperla, di un granchietto. Che vive in simbiosi con la bivalve. In modo inscindibile.
Luisa Guarino
1 Luglio 2017 at 16:43
A proposito della perla di cui parla il nostro Franco, ho dei ricordi legati agli inizi degli anni ’60, quando la sensibilità ambientale era nulla e la “pinna nobilis” a Ponza era molto diffusa. Proprio in un’estate di quegli anni alcuni amici avevano pescato una lanaperla molto grande dietro la Scogliera. Una volta poi mi è capitato di vedere anche la poco nota “perla”: piccola, opalescente, semitonda. E’ sbucata dal frutto che mia nonna aveva estratto con cura dalle valve per cuocerlo. A me e a mio fratello quella polpa molliccia faceva un po’ schifo ma per altri era una prelibatezza, specie se passata in padella con olio, aglio e prezzemolo, anzi “persemolo” come diceva nonna Fortunata.