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Michele ha novantatré anni. Sorride spesso, e ogni volta che lo fa gli si illuminano gli occhi.
Non si può far altro che sorridere guardandolo, così come si sorride guardando un bambino al quale brillano gli occhi. È un angolo di pace la sua presenza; un albero che ha conosciuto molte stagioni.
Si porta le mani alle orecchie a mo’ di cuffia, come per non sentire: – Rosaria, Rosa’ – ripete. Mi guarda e mi chiede retorico – Ch’allucc’a ffa’?
Il salto spazio-temporale è grande; dalla casa rosa dei Conti alla spiaggia di Frontone, dall’era dei social ai primi anni dopo la guerra.
– Avevamo un pezzo di terra, là sotto al fabbricato. Facevamo lenticchie – racconta Lucia – e fagiolini.
Sfiora le piante dei ricordi con le mani di oggi.
In una grotta poco distante dal loro terreno il mio bisnonno Antonio vendeva farina, formaggio e piccole cose utili per la pesca.
Rincorreva, anzi – tentava – dopo averle avvistate con i sui occhi azzurri da navigante, tutte le donne della contrada, vedove o ammogliate che fossero. E tutte, sistematicamente, andavano a lamentarsi da Donna Raffaela, sua moglie; lei sistimava le cose (e il marito!).
Si lamentavano prima o dopo? Non saprei.
La famiglia di Lucia possedeva un altro pezzo di terra a Frontone, due catene proprio di fronte alla casa dei miei bisnonni.
Partiva da Santa Maria per lavorare la terra che ripagava le fatiche con fave, piselli, cicerchie, ceci e culetuòtene; quest’ultimo legume nei racconti di nonna Silvia era per la tavola mentre la memoria di persone leggermente più giovani lo riporta come destinato agli animali. Leguminosa di una lontana gioventù, sapore della fame.
Quando aveva sete andava a bere dalla vicina zi’ Rafela (la mamma del Maestro). Capitava spesso che le donne e gli uomini di una certa età venissero chiamati zii pur non rientrando nel parentado, era segno di rispetto ma anche di affetto.
L’acqua della piscina era fresca e abbondante. La cucina si apriva su quello che oggi si chiamerebbe terrazzo sul mare, dove ombra e fresco erano garantiti da un pergolato di vite.
Nei suoi ricordi, d’un tratto, sotto ’a prèula, compare il pancione di Silvia che aspettava mia madre.
Da quella curteglia, decollavano gli urli che disturbavano il lavoro silenzioso di Michele, quel fastidio che riporta chiudendosi le orecchie. La mia bisnonna, infatti, usciva di casa e puntando in direzione del Fortino chiamava la figlia che abitava dall’altra parte di Frontone: – Rosaariaaa, Rosa’ – chiamava quella figlia che sarebbe emigrata in Argentina e che non avrebbe mai più rivisto.
– Ch’allùcch’a ffà?! -, si chiedeva zio Michele zappando la terra, al limitare della spiaggia.
Lucia e Michele sono sposati da sessantacinque anni.
– Io non lo volevo, poi mi sono convinta perché tutti dicevano che era un lavoratore” – lo guarda teneramente.
– Ma lo conoscevi già? – azzardo a chiedere.
– A chi?! – agita la mano.
Michele si era presentato dai genitori per chiederla in moglie. Lei aveva accettato dopo più di un ripensamento. Fidanzati a febbraio, sposati ad aprile. Per il pranzo di nozze ziti spezzati col sugo di gallina, pollastri di casa, coniglio e parmigiana con le melanzane dorate e fritte. La torta e la confettata alla fine, le bomboniere non usavano.
Hanno conosciuto la guerra, la fame. I tempi in cui non si scartava niente, neanche le palette.
– E se avevi un dolore, mettiamo a una spalla, c’era il mattone caldo. Ce lo mettevi sopra e passava tutto, altro che medici e medicine”.
La madre doveva crescere lei e altri otto figli.
– Certi giorni si campava con una fetta di pane a testa e se cercavamo un poco d’olio da metterci sopra, mammà diceva che ce faceva veni’ ’a vòzzola ‘nganne ”.
Lucia a Frontone ricorreva all’acqua di zi’ Rafela, i Conti la vedevano vicina di casa dell’altra mia bisnonna Raffaela, meglio conosciuta come Peppinella ’i pelusce.
Forse il nomignolo peluche era legato ad un collo di pelliccia di coniglio conciata col sale grosso con cui aveva abbellito il suo cappotto; forse.
Quando Lucia cominciò ad avvertire i dolori del suo primo parto, mandò il marito a cercare la bisnonna ’i pelusce affinché la assistesse.
– Era come una mamma per me, zi’ Peppinella, che ti credi?! – sottolinea.
Ha finito di pulire i broccoletti del suo orto e li mette in pentola.
– Adesso odoriamo tutto – mima col naso – …chist’ è acidiato, chest’ nun me piace… Mamma mia levava ’a perìmm’ d’u ppane e ci ’u ddeve!
Poi è venuto il benessere.
– Mio marito ha lavorato nella miniera per otto anni. Si guadagnava trentacinquemila lire – racconta.
Sorride Michele, si sente chiamato in causa: – Notte e giorno, tre turni si facevano. L’uommene rumpevene e ’i femmine carriàvene. C’era sempre una nave pronta per caricare… Il passato torna presente nei particolari.
Dopo la polvere, il mare, anni e anni di navigazione: ’U mare se l’è mangiato – dice Lucia.
Conosce tante filastrocche e le preghiere che si usavano una volta.
– Cu’ chelle ’i mo’ nun ce capisc’ niént’…
Intorno alla casa è tutto un fiorire. Le fresie con l’umidità del tramonto impregnano l’aria. Il verde è frequentemente ricamato d’arancio calendula (l’uocchie ’i voie).
Primavera. Mi torna in mente nonna Silvia che si presentava con un sorriso sornione e le forbici in mano. Senza spiegazioni mi tagliava una ciocca di capelli. Lo faceva ogni primo venerdì di marzo.
Chiedo a zia Lucia se ricorda questa cosa. Certo. Lei continua a farlo: – Come no! …serve a tene’ luntan’ ’u mal ’i capa pe’ nove lune.
Promemoria per marzo: passare da zia Lucia il primo venerdì.
Conosce un’antica litania per i morti, un canto che definisce impressionante, ma dovrò aspettare il ritorno di un’altra signora per sentirlo intonare; in due, è certa, lo ricorderanno per intero. Io aspetto speranzosa.
Intanto provo a trascrivere una delle sue filastrocche.
È venùt barbettòne
Cu’ ’nu piatt’ a cuppulòne
E’ venùt’ ’a’mericane
Cu’ cient’ gramm’ ’i pane
E’ venùt’ Musulìne
C’a panza ’a’ret i rine
Quando ho chiesto a zia Lucia se potevo menzionare lei e il marito mi ha detto: – Scrivi, scrivi figlia mia… ’a cca a cient’anni che muore tu, almeno cocchedune s’arricorda!
Racconti brevi, solo apparentemente inutili, tessere su tessere di storie tramandate a voce.