Troppo sballottato dall’assalto del mare che stringe questo scoglio, la poltrona funge da approdo. Le raffiche del levante agitano nella stanza questa traccia…
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Fui rapito alla mia terra nell’età in cui i vicoli fischianti facevano eco ai moniti di papà e mamma, e le cappelle votive dai muri indicavano la via. Fioca e sconnessa. Strappato agli amici con cui condividevo il possesso delle stradine, mio fratello lasciato nel lettone e in cucina l’odore saporito della minestra, divenne questa terra il luogo dove il sogno si slarga e si appaga.
Vivo oggi la mia terra come luogo amaro perché il salmastro corrode i muri, insidia i guanciali, incattivisce gli animi. Questa terra è tanto aspra quanto indulgente.
Cattura perché l’ effluvio delle ginestre inebria, i sorrisi dei bimbi stupiscono e gli occhi si velano di umido al brillìo delle onde, dominio del sole.
Ma strazia. Gli uomini si dilaniano scioccamente nelle beghe intestine, e il mare incupisce le volontà, ne tarpa il libero intendimento.
Tutto è proteso ad un futuro, labile come il vento, fragoroso, tanto da non lasciare intendere le parole che gli uomini si dicono di sfuggita.
Benché attento, lo spirito non sente che la tensione del momento, amplificata dai cavi dei vicoli deserti.
silverio lamonica1
14 Febbraio 2017 at 21:10
Un “diletto” alquanto melanconico, ma nello stesso tempo molto suggestivo e piacevole.