di Rosanna Conte
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La riduzione del ricordo dell’Olocausto ad un selfie è quanto di più fallimentare la nostra storia possa aver prodotto nelle coscienze del terzo millennio.
Nel documentario Austerlitz, da qualche giorno nelle sale cinematografiche, il regista Sergei Loznitsa osserva la fenomenologia del turismo della Shoah.
Il campo di Sachsenhausen , trenta km a nord di Berlino, meta frequente di visite come tanti dei campi di sterminio nazisti, è il luogo in cui Loznitsa riprende coppie che si fanno i selfie e gruppi che fanno colazione sul prato. Le camere a gas, le fosse comuni, il palo delle fucilazioni hanno perso il senso della loro conservazione: sono luoghi come altri dove ci si può ricordare di essere passati nel corso della propria vita facendosi aiutare magari da una foto.
E’ la memoria umana debole, incapace di conservare legati i sentimenti e i fatti? E’ la superficialità nel considerare uno sterminio prodotto scientificamente come irripetibile? E’ l’abitudine ai social a decantare qualsiasi azione in un distaccato video game posto a distanza di sicurezza o confinato nel virtuale?
Quell’orrore oggi non è più percepito, eppure tanti sono stati gli orrori successivi e tanti ne accadono ancora oggi.
I soldati dell’Armata Rossa che quel 27 gennaio del 1945 entrarono nel campo di Auschwitz rimasero inorriditi e, nei loro occhi, inorridì il mondo.
Molti rifiutavano di crederci: l’animo umano non poteva concepire un qualcosa di così crudele. Ci sono voluti anni per giungere al processo di Norimberga, alla raccolta delle testimonianze dai sopravvissuti rimasti afoni per decenni tra sensi di colpa per non aver subito la stessa sorte degli altri e l’impossibilità di rendere con parole il dolore e l’orrore della loro esperienza.
Nel tempo si sono accumulati prove, monumenti, opere, ma c’è ancora chi nega l’Olocausto esaltando il nazismo ed il fascismo come forme di governo auspicabili, dimenticando che furono dittature sanguinarie in cui l’Italia non fu da meno della Germania.
L’idea del campo concentrazionario, dove cioè raccogliere particolari tipologie di persone da espungere dalla società, fu un’idea tutta italiana che il nazismo sviluppò e a cui gli italiani non si sottrassero. Così dagli avversari politici, pericolosi per il regime fascista, si passò agli inabili, ai rom e sinti, agli omosessuali, ai Testimoni di Geova, agli ebrei dei nazisti.
E l’Italia, varando le leggi razziali del 1938, si adeguò liberamente.
Cosa fecero e dissero gli italiani, la massa degli italiani? Furono consenzienti. Molti di loro incassarono le 5000 lire per aver dato informazioni sugli ebrei nascosti.
Pochi sanno che, quando il giornalista Furio Colombo, allora deputato, presentò il disegno di legge per istituire in Italia il Giorno della Memoria, propose il 16 ottobre, il giorno in cui le SS rastrellarono il ghetto romano deportando 1022 ebrei romani che morirono quasi tutti ad Auschwitz.
La sua proposta voleva porre al centro di questa giornata non solo il ricordo della tragedia, ma anche la responsabilità italiana nella vicenda. Le autorità italiane fornirono l’elenco con i nomi delle persone da deportare e non fecero nulla per impedire questa vera e propria razzia sul proprio territorio. E noi continuiamo a conservare il mito degli italiani brava gente.
Non abbiamo ancora imparato a fare i conti col nostro passato, dall’unificazione italiana col brigantaggio, alle fucilazioni durante la tragica gestione della Prima Guerra Mondiale, al consenso popolare al fascismo sia nell’esaltazione di una potenza inesistente sia nelle sanguinose esclusioni dei dissidenti sia nelle persecuzioni razziali, senza considerare le guerre coloniali con le stragi perpetrate nei paesi africani.
E questi sono solo alcuni dei punti che non si risolvono nelle nostra coscienza collettiva e che non ci consentono nemmeno di dare un giudizio condiviso sul nostro passato che ormai è storia, ma che per noi rimane ancora luogo di scontro di idee.
Come un gatto che si morde la coda, mettiamo la toppa degli italiani brava gente sugli occhi per non vedere e non affrontare l’evidenza che non esiste un popolo buono o cattivo – non possiamo pensare di essere diversi dagli altri nel fondo dell’animo umano -, ma esistono individui che singolarmente e con la propria responsabilità compiono scelte.
Furio Colombo, quando propose il 16 ottobre, voleva scardinare proprio questa pesante incrostazione storica delle nostre coscienze, ponendo in evidenza la necessità di essere consapevoli che l’orrore dell’olocausto era anche italiano.
Anche dal nostro paese ogni anno partono numerosi gruppi per vedere i luoghi della Shoah e molti sono composti da giovani.
Anch’essi faranno i selfie oppure saranno coinvolti, almeno per la durata della visita, nei dolorosi sentimenti che suscitano i resti tra cui camminano?
La realtà, per quanto residuale, riuscirà a vincere la concorrenza del virtuale?
Lorenza Del Tosto
8 Febbraio 2017 at 10:29
Quest’estate ho visitato Ground Zero a New York. In realtà non era mia intenzione andarci, temevo l’aspetto turistico e provavo un certo disagio, mi sembrava una curiosità malsana.
Ma rientrando dopo una camminata lungo l’Hudson ci siamo capitati d’un tratto quasi per caso.
La grandi vasche che ora occupano le basi delle Torri gemelle, con l’acqua che cade sui bordi e sprofonda nel centro con i nomi delle persone incise lungo tutto il perimetro sono davvero impressionanti. Trasmettono un senso di tragedia profondissima.
Un precipitare improvviso, un frantumarsi verso il nero ed il vuoto.
Per giorni ci siamo portati dentro, come un’ossessione, quel senso di nero, di vuoto. Il ricordo ossessivo di tutte le vite precipitate in pochi minuti.
Eppure l’aspetto più doloroso ed incredibile era il ricordo delle tante giovani coppie che si facevano i selfie sorridendo felici appoggiate ai bordi delle vasche.
Avrei voluto chiedere loro a cosa o di cosa sorridevano.
Ma ho lasciato perdere.