Sono uccello sospinto dal vento
sono albero deformato dal vento
sono foglia trasportata dal vento
sono nel vento
io sono il vento
s. a.
.
Un rumore, una porta che si apre, un uomo che compare sull’uscio.
Buongiorno, gli dico. Buongiorno, mi risponde.
Ho il sole negli occhi. Porto una mano alla fronte per proteggerli e tentare di distinguere la figura che mi si pone di fronte.
“Sono la nipote di Peppinella” – maldestramente cerco di spiegare a chi appartengo, facendo appello al mio 12,5% Conte.
“Sto cercando di raggiungere un terreno vicino ad un grosso pantano”.
“Ah!”, mi fa. Resta tra i suoi pensieri per qualche istante, giusto il tempo di farmi sprofondare nell’imbarazzo.
Qualcosa s’illumina in lui e – con intensità – chiede: “Ma tu sei la nipote del maestro di Frontone?”. Si! Esulto, mentre partono i fuochi d’artificio nella mia testa.
“Posso passare di qua per arrivare al terreno che era di Domenico, nonno di mia nonna?”, domando baldanzosa.
“Venite, vi faccio vedere per dove si passa. Ce li avete gli stivali?”
Stivali? – mi guardo i piedi perplessa.
Anche lui mi guarda le scarpe poco convinto.
“Vieni ti accompagno”, si risolve d’improvviso. “Ti faccio vedere da dove devi passare”, la diffidenza cede il posto alla cordialità; evviva!
E sì, perché una tipa gironzolante con il giacchetto verde e lo zaino sulle spalle – verde anch’esso – può non ispirare simpatia, così di primo acchito. Cosa avrà – poi – di così brutto questo colore?!
Ci incamminiamo insieme. Lui indossa le ciabatte, e regge – con mano ben salda – mezza busta di granone per le galline.
Si avvia sicuro verso il sentiero. Lo seguo.
Mi descrive il terreno sabbioso, ormai abbandonato dai giovani.
Proseguendo chiedo il suo nome, dandogli del voi, in segno di rispetto.
Dice di chiamarsi Gennaro – “Nipote di Gennarino”, precisa. E’ un incontro fra nipoti, del resto.
Giunti nel punto stabilito non mi lascia sola, ma continua a guidarmi lungo la strada.
Avrà circa ottant’anni, il fisico asciutto e conosce quella terra davvero come le sue mani.
Comincia a delimitare – a voce – ogni singola proprietà, confine su confine, basandosi su alberi e rocce. Parla un buon italiano. La sua descrizione è rapida ed efficace; non abbisogna di mappe né di GPS.
Ha vissuto negli Stati Uniti per undici lunghi anni. Quando gli ho chiesto il motivo del suo ritorno mi ha risposto serafico: “Qua la vita è differente”.
Tocchiamo una salita e diventa necessario camminare lungo la roccia.
Guarda le mie scarpe outdoor, guardo le sue ciabatte. Ci guardiamo.
“Queste vanno bene per camminare, non scivolano” – mi fa – riferendosi a ciò che calzo.
Sale, mi porge la mano; è bellissimo il pensiero di un uomo molto più vecchio che mi guida, preoccupandosi della mia incolumità.
“Mica soffri di vertigini?”, mi sorride. Goffamente tento di spiegare che sono abituata a camminare, a cadere, e a graffiarmi coi rovi. Non ne è troppo convinto.
Lo spirito da naturalista che è in me vacilla mentre la mia parte selvaggia risponde al suo sorriso.
“Con questa ci facevano le scope, con i pezzi più secchi si accendeva il fuoco per cucinare”. La macchina del tempo si è messa in moto.
“Tocca, ma fai attenzione che ti tagli”, inspira pensieri antichi.
“Eh, una volta si viveva così, quando non c’erano tutte le comodità”.
Respiro profondamente e scaccio via di forza il peso dei troppi bisogni indotti (e inutili) del nostro tempo.
Arriviamo all’acqua. “Ecco il pantano che cercavi!”, sfoggia la gioia di un bambino. Mi regala i suoi ricordi legati ai blocchi di tufo e ai segni della fatica impressi nelle pareti.
Riprendiamo a camminare.
“Da qui puoi tornare a casa, passi vicino a Luigino e scendi giù alla marina”, mi indica la via più facile per il ritorno. Lui percorrerà il sentiero a ritroso. Sollevo lo sguardo per salutarlo. Ha gli occhi chiari, virano verso il grigio. Il sole che lo colpisce in volto evidenzia l’espressione serena di chi, inconsapevolmente, si è salvato dalla morsa delle sovrastrutture, e tanti saluti al sistema!
Gli stringo la mano per ringraziare e salutare. Non riesco a trattenermi dal portare le mani unite verso il petto.
“Namasté Gennaro”, vorrei dire ma… Le parole non servono quando ci si riconosce figli di un’unica Madre.
Tira fuori dalla tasca una caramella per Gina; “Solo una ogni tanto”.
Quando gli ho chiesto se potevo scrivere di lui e usare qualche foto ha annuito aggiungendo semplicemente: “Per internet”.