segnalato da Giuseppe Mazzella
È proprio vero: le nostre isole si annidano dappertutto. Leggi di storia romana e le trovi quando meno te lo aspetti. E così è capitato piacevolmente a me nel leggere il volume che raccoglie alcuni articoli del professore e archeologo Romolo Augusto Staccioli. Ventotene e la celebre Villa Giulia, sono ancora una volta raccontate con intensità e passione. Una intensità e una passione in cui intendiamo coinvolgere i nostri lettori.
Vista sotto un profilo genericamente turistico, Ponza esercita un richiamo più forte dalla “sorella” minore Ventotene.
Questa però ha dalla sua alcune “perle” di carattere archeologico che ne fanno – o dovrebbero farne – una meta ancora più ambita. Comunque, assolutamente da non trascurare. Si tratta di “monumenti” dell’età romana a lungo negletti, ma ora, da qualche anno, oggetto d’interventi e di “cure” che li stanno proponendo all’attenzione degli appassionati e dei curiosi. Mentre al piano terra del Castello, un piccolo ma eccellente museo espone oggetti e documenti, pannelli, ricostruzioni, confronti, plastici e “modelli” che illustrano la storia e l’archeologia dell’isola chiamata dagli antichi Pandataria.
Dei monumenti, il più noto e del tutto eccezionale è il porto, ancora in funzione dopo duemila anni, scavato nella roccia tufacea, con le banchine, le bitte per gli ormeggi, i ripostigli, il bacino di alaggio, i magazzini e quanto resta del portico antistante, anch’esso ricavato nel banco di tufo e bizzarramente “sbocconcellato” da secoli di erosione atmosferica.
La peschiera romana
A ridosso del porto, c’è la Peschiera, un modello d’impianto per l’itticoltura: pure scavata nella roccia e in comunicazione col mare mediante appositi canali, si compone di una grande vasca a cielo aperto, suddivisa in due parti da un diaframma un tempo munito di saracinesche e internamente fornita di concamerazioni e ricettacoli per i pesci, e di due vasche coperte entro ambienti a volta che s’affacciano perpendicolarmente sulla vasca esterna.
Alla peschiera e al porto arrivavano due rami dell’acquedotto sotterraneo che attingeva l’acqua da un sistema di cisterne situate in punti diversi dell’isola. Due di queste cisterne, liberate dall’interramento e dalle superfetazioni moderne ed egregiamente sistemate, sono ora tra le “novità” offerte ai visitatori: spettacolari per grandiosità ed effetti scenografici, stupefacenti per tecnica d’esecuzione e stato di conservazione (l’intonaco idraulico che ne riveste tutte le superfici sembra appena applicato).
La cisterna di Villa Stefania, preceduta da un bacino per la raccolta dell’acqua piovana, è formata da una serie di ampie gallerie che s’intersecano tra di loro, ricavate scavando nel banco di tufo e risparmiando robusti “dadi” di roccia che servivano da pilastri per le volte intatte.
Ventotene. Cisterne romane e (sotto) fregi murari della Cisterna dei Carcerati
Ancora più imponente è la Cisterna dei Carcerati, così chiamata per aver ospitato tra il 1768 e il 1771 una “colonia” di ladri e prostitute inviata per il ripopolamento dell’isola, allora deserta, dal re di Napoli, Ferdinando V.
Anch’essa interamente scavata nel banco tufaceo, a una decina di metri di profondità, è formata da un grande spiazzo a cielo aperto per la raccolta dell’acqua e da due gallerie a volta, tra loro parallele e comunicanti, ma separate da una fila di “pilastri” risparmiati nel tufo, che nella parte più interna del manufatto sono attraversate da tre bracci perpendicolari. Di grande interesse i numerosi “segni” di frequentazione (graffiti, disegni, incisioni, pitture, specialmente di icone ed edicole sacre) a partire dal medioevo, da parte di monaci ed eremiti e poi di gente d’ogni tipo e di contadini che vi si rifugiavano, anche con gli animali, in occasione delle ricorrenti incursioni piratesche, fino al soggiorno dei “carcerati” di re Ferdinando.
Le altre novità si trovano in quella che resta l’attrattiva emotivamente più coinvolgente dell’isola: la grande villa destinata all’esilio di membri della famiglia imperiale, da quando Ventotene (come Ponza) divenne proprietà dell’imperatore, al tempo di Augusto. Ad inaugurare la triste serie degli esili fu, nel 2 a.C., proprio la figlia di Augusto, Giulia, relegata nell’isola dal padre esasperato per la sua condotta “scostumata” e per le sue continue trasgressioni alla legge che egli stesso aveva voluto per porre un freno alla dissolutezza imperante (nei rigori di quella legge – e quasi certamente “in combutta” con Giulia – incappò, com’è noto, anche il poeta Ovidio, condannato al ben più crudele esilio di Torni, sul Mar Nero).
La figlia dell’imperatore era accusata di darsi a licenziosi festini e a orge notturne addirittura nel Foro, sulla tribuna dei Rostri, e d’aver intessuto tutta una serie di relazioni adulterine.
Ciò che non le impedì di mettere al mondo ben cinque figli somigliantissimi al legittimo padre, Agrippa, suscitando una generale meraviglia alla quale tranquillamente rispondeva facendo notare come “prima d’imbarcare un nuovo passeggero, si preoccupasse d’aver fatto il pieno”!
Dopo Giulia, che nell’esilio fu volontariamente accompagnata dalla madre Scribonia, toccò alla figlia Agrippina, vedova del grande Germanico, accusata da Tiberio di insubordinazione e morta nell’isola (ma le sue ceneri vennero poi riportate a Roma dal figlio Caligola).
Lo stesso Caligola non esitò a spedire a Ventotene la sorella Livilla (poi liberata dallo zio Claudio), colpevole, si diceva, d’aver rifiutato il suo letto incestuoso.
Quindi, nel 62 d.C., fu la volta di Ottavia, moglie ripudiata di Nerone, vittima delle insinuazioni della rivale Poppea, la quale, non soddisfatta dell’esilio, la fece crudelmente uccidere nella villa stessa che l’ospitava.
Infine — almeno per quanto ne sappiamo — toccò a Flavia Domitilla, al tempo e per opera di Domiziano, suo zio, con l’accusa di “ateismo e dì giudaismo”, cioè, quasi certamente, di cristianesimo. La villa sorgeva in posizione stupenda, occupando tutto il promontorio settentrionale dell’Isola o Punta Eolo.
Ventotene. Ruderi di Villa Giulia
Devastata e pressoché interamente distrutta da diciotto secoli d’abbandono, di saccheggi e di naturale consunzione, dal 1991, è oggetto dì sistematici lavori di ricerca e di scavo e soprattutto di consolidamento, di protezione e di restauro. Così, i resti a prima vista informi, stanno diventando comprensibili, come ad esempio, quelli del quartiere termale dove spicca la rotonda del calidario, per metà crollata e con la parte restante ora quasi a picco sul mare: lo splendido, verde turchese mare di Ventotene!
Dovette essere proprio lì, nella vasca che occupava il centro della grande sala, che fu gettata a morire, con le vene recise, la sventurata Ottavia. Ma il fantasma che aleggia tra i ruderi è quello di Giulia, tanto che la villa viene comunemente indicata come la “Villa di Giulia” o, più brevemente, “Villa Giulia”.
Da qualche parte, sul posto, qualcuno dovrebbe provvedere a far incidere i versi che alla disinvolta figlia di Augusto ha dedicato il poeta Antonio Greggio: “Giulia, s’affosca di calure il mare / e tu sull’estrema punta di Pandataria / sospiri la perduta libertà. Nella dimora / di tufo e marmo che sfidò l’impero / s’avvitano al cielo scale corrose, / gallerie d’azzurro demolite dagli assalti. / Resta di te tra ginestre e crete / il tuo corruccio roso da venti di sabbia, / la memoria di triclini proibiti, il brivido / offerto ai tuoi saccheggiatori. / L’onda s’allunga con rumore di baci / contro le fredde ombre dei basalti. / In fondo all’acque trasparenti veglia / l’aguzza crudeltà della murena”.
[Dal libro di Romolo Augusto Staccioli: “Italia di ieri Italia di oggi”. Ed. Archeoroma; 1996. pp. 163-167]