Del Tosto Lorenza

Incontro con Mirella Romano (1)


di Lorenza Del Tosto

Appena entriamo in queste stanze, nel museo fondato da Mirella Romano a sessant’anni dall’affondamento del Piroscafo Santa Lucia, noi ne siamo già parte. Prima ancora che la nostra mente possa adattarsi al luogo, e percepirne le presenze. I rumori del porto e le voci dei turisti che sciamano sulle strade bianche terrazzate, con il carico di frastuono e spossatezza dei luoghi dell’estate, si sono dissolti, affievoliti nella successione di stradette via via più deserte e di affacci improvvisi a strapiombo sul mare che ci hanno portato fin qui. E ora nel silenzio improvviso, nell’ombra fresca che ci accoglie, Mirella Romano alta, elegante, ben truccata, ci porge la mano con deferenza ed un grande sorriso.

Sembra un’apparizione, come se all’improvviso l’isola rivelasse un volto nascosto diverso dai visi abbronzati, avidi di oblio e di incontri, di qualche strada più in là. Ed è così spesso nelle isole, che nascondono un cuore segreto lontano dal mare.

Mirella ci cattura nel suo mondo, si rivolge a noi mostrandoci foto ed oggetti come se la vita che qui si conserva fosse anche la nostra, come se l’ultimo viaggio del Piroscafo Santa Lucia avesse portato con sé una parte di noi.

Forse è per via dell’amico che ci accompagna. Un ponzese Doc seppur acquisito. Uno dei fondatori del sito ponzaracconta, profondo conoscitore del luogo, della sua gente, delle sue piante.

In occasione di un nostro viaggio a Ponza gli abbiamo chiesto se conoscesse un sognatore realizzatore. Uno che sogna e che realizza quello che sogna perchè è di questa gente che abbiamo voglia di parlare. Qualcuno alla maniera del duca Luigi Silvestro Camerini, confinato a Ponza di cui sull’isola si è, di recente, commemorata la memoria.

E il nostro amico ci ha detto. Devi parlare con Mirella. Vedessi che donna.

Il mare, che da qui sembra lontano, gioca un ruolo breve e fatale nella storia racchiusa in queste stanze. Nella vita del padre di Mirella alla cui memoria questo luogo è dedicato.

“Si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato” – dice Mirella indicando il modello in scala 1 : 20, al centro della sala, del postale Santa Lucia, all’epoca unico collegamento con la terraferma delle isole ponziane. Il momento sbagliato è il 24 luglio del 1943 quando con la prua rivolta a Ventotene, poco prima dell’attracco, il Santa Lucia è bombardato dall’aviazione inglese. Il cannoncino sul ponte della nave era ancora nel fodero. Il giorno prima la nave era stata mitragliata. Girava voce che il Duce sarebbe stato trasferito nella zona a bordo di un mercantile (…sarà effettivamente mandato in confino a Ponza, solo qualche giorno dopo, il 27 luglio del ’43). E’ possibile che l’aviazione inglese quel mattino fosse stata allertata.

Mirella si stringe nelle spalle: le ragioni del bombardamento resteranno purtroppo insondabili, imperscrutabili, inutile forse perderci altro tempo. “Eravamo in guerra” è stata la laconica risposta data dagli inglesi. E per il momento lei si accontenta. Continua a tessere piano la sua tela come ha fatto fin qui. E chissà che il tempo non riveli nuove ragioni.

E’ comunque altro quello che qui si cerca di ricostruire.

In questa stanza, che presto si amplierà e conquisterà altro spazio, all’interno delle ex ‘camerate’ del confino e ora sala del Consiglio Comunale, inaugurata nel 2003.

Gli occhi di Marilla si illuminano: “E’ stata mia madre a tagliare il nastro”.

Non fosse stato per Mirella, a Ponza, forse il ricordo lentamente si sarebbe smorzato, sbiadito. Non a Ventotene dove il relitto è a pochi metri dalla costa.

Non si sarebbero conosciuti i nomi, i volti, le storie delle persone che il mare ha ingoiato. Nessuno, nel fatalismo dell’isola, avrebbe raccolto pazientemente le loro foto, come invece è avvenuto per altri luoghi della morte della Seconda Guerra Mondiale.

E i volti sono qui, davanti a noi sulla parete, allineati sorridono, e Mirella li sfiora con il dito, non ha bisogno di leggere le didascalie, cita i loro nomi in un sussurro gentile, con le labbra schiuse in un sorriso indulgente come riferendosi ad amici che in vita hanno fatto qualche birbonata, si sono presi una libertà scanzonata che ora resiste all’oblio della morte, più di ogni atto di bontà.

Ecco il comandante: riportò un trauma cranico e ustioni gravi ed estese; ripresosi dal coma, prima di morire, chiedeva alla moglie convulsamente quanti in nave si fossero salvati. Una domanda ossessiva a cui la moglie rispondeva: – Tanti, tanti. Ma in realtà furono solo cinque.

Cinque superstiti che contravvennero proprio alle indicazioni del comandante. Il quale, temendo un nuovo mitragliamento, aveva ordinato a tutti di scendere sotto coperta ad accalcarsi come sardine. Eccolo un sopravvissuto: un carabiniere che non sapeva nuotare, e fu ripescato abbracciato ad un sostegno. Moretti Vincenzo. Ma non c’è tempo di afferrare il suo sguardo perché Mirella ci sta raccontando un’altra storia. Del marinaio che durante la navigazione si avvicinò ad una coppia di sposi in viaggio di nozze. E lei gli diede i loro confetti.

“A bordo c’erano due coppie di sposini” – mormora Mirella e nella sua voce c’è, insieme al cordoglio, una forma di tenerezza, come se loro fossero anche creature sue. Il loro matrimonio, il loro viaggio di nozze, lei li ha riscattati dall’oblio in fondo al mare. Perché se qualcuno ricorda, forse la morte è meno assurda e forse un senso alla vita si trova. Comunque quel marinaio sopravvisse e, molte ore dopo, ritrovò i confetti nelle tasche dei pantaloni.

E un altro, Francesco Aprea, Mirella scuote la testa, sfiora con il dito la lastra di vetro dietro cui sono attaccate le foto, come se quel cristallo fosse il destino, e ci fosse un punto che a saperlo toccare tutto potrebbe ancora cambiare. O mostrerebbe un disegno nascosto.

Francesco Aprea era uomo di mare, ma dopo quel giorno se ne andò a vivere alle Forna giurando che non si sarebbe più imbarcato. Ma lassù non  resistette, tornò in mare ed ebbe quattro naufragi. L’ultima uscita in mare, quella che gli fu fatale, era per diletto: con un amico che lo portò con sé per provare il motore. Assurda la vita e assurdo il destino, talvolta. Eppure ora che tutto è stato qui racchiuso e ricomposto, dicono gli occhi di Mirella, anche lei ha giocato un tiro al destino, che tutto voleva inabissare.

E suo padre? Non lo abbiamo ancora visto. E forse lei non ce lo avrebbe mostrato nemmeno. Ora che la sua memoria è così viva e lui è ovunque: ma eccolo Carmine Romano, 31 anni, sua moglie ne aveva 23 quando lui morì. Si era sposata il giorno dopo aver compiuto vent’anni. Mirella aveva 22 mesi quando la morte trasformò suo padre nella linfa vitale delle sue giornate. Mirella lo guarda in silenzio. Mormora: – “Il 17 luglio c’era stato il bombardamento del quartiere di San Lorenzo a Roma”. Poi il suo dito scorre via a cercare altre storie.

Mirella ha intessuto ricordi e assemblato memorie che le famiglie, distratte dalla guerra e abituate ai suoi morti, non avrebbero conservato. Questi due sarebbero rimasti ‘Vincenzo Piro ed Elena De Filippis’, giovani sposi morti in fondo al mare. Ma oggi, a chi li guarda, ripetono la storia che Mirella ricorda. Erano andati a salutare il parroco, il giorno prima c’era stato quel mitragliamento e il parroco li sconsigliò di partire. Ma loro dissero di no, volevano andare, si amavano e il resto cosa importava? E il parroco dopo ricordò le parole che Elena disse a Vincenzo: – Pensa come sarebbe bello se morissimo insieme.

E’ possibile allora immaginare che, quando la nave si aprì, non fu per loro un troppo grande dolore. Consegnarono in custodia al mare l’acme del loro amore.

Ed ecco Giuseppe Captano, di guardia al faro, che morì per un congedo che non doveva essere il suo.

Questi volti, queste storie che Mirella ha ricostruito lentamente nel tempo – parlando, cercando, mettendo annunci, ascoltando chi le veniva a parlare – sono i tasselli di un puzzle che piano piano si ricompone. Le sue lunghe dita  si muovono come se il disegno si stesse formando davanti a lei.

Un disegno di cosa?

– “Non lo so, mi sembra di avvicinarmi sempre più al centro di qualcosa. E’ un lavoro che mi ha assorbito tanto”.

Cosa c’è al centro di questo lavoro, che ha tardato tanto a partire? Perchè come dice Mirella: – “Avevo più di quarant’anni quando ho cominciato a cercare mio padre. A cercare di ricostruire la sua storia. Ho messo un annuncio su Famiglia Cristiana. Ho dovuto aspettare di trovare la sicurezza dentro di me” – ci dice pensandoci su un istante. – “Prima ero molto fragile. Ho dovuto rafforzarmi. Ho fatto l’insegnante elementare, sono andata in pensione appena ho maturato un minimo di anni.  E allora è nato il desiderio di vincere il silenzio che mi portavo dentro. Ho messo l’inserzione e subito qualcuno ha risposto, qualcuno che ugualmente aveva aspettato tanti anni, sapendo solo che certi loro parenti erano morti in guerra; non si fa tanta differenza tra i morti in guerra. Ma quei parenti hanno risposto”.

Sulla parete della stanza da dove ci guardano i volti raccolti da Mirella è incorniciata la prima poesia che lei ha scritto per il padre. La poesia è stato il modo per rompere il silenzio. Poesie e lettere al padre come quella che ha vinto al Festival delle lettere a Chieti nel 2008. ‘Lettera ad un bugiardo’. Si intitola.

Quel silenzio sembra pesare ancora adesso, e nel raccontare la sua storia lei  si commuove. All’epoca suo padre, di stanza a Gaeta, era di servizio su un dragamine, per un periodo anche Mirella con la madre erano vissute a Gaeta. (Il padre in occasione di quel viaggio le regalò un cappottino bianco che ora è tra gli oggetti conservati al museo insieme agli arredi della nave). Poi, quando la guerra si avvicinò, il padre per sicurezza le aveva riportate a Ponza.

In quei giorni era tornato sull’isola per una licenza premio, il destino volle che suo padre, il nonno di Mirella, che viveva a Palmarola avesse un’emorragia interna e andasse in coma, Carmine chiese una proroga della licenza e gliela concessero; il nonno di Mirella non si riprendeva e il padre chiese una seconda proroga. Quando il 23 luglio la nave fu mitragliata, Carmine si dimenticò, nel trambusto che seguì, di andare in capitaneria per vedere se fosse arrivata. E semplicemente si imbarcò.

Mirella non ha ricordi, ma ha ricostruito gli eventi dai ricordi e dalle parole degli altri e ora, ricostruendo la successione di coincidenze, le sue labbra tremano. – “Dopo si scoprì che in capitaneria era arrivata l’autorizzazione per la seconda proroga. Mio nonno uscì dal coma e, quando apprese cosa era successo, ebbe a dire: – La mia croce se l’è portata mio figlio. La mia nonna paterna si ritirò a Palmarola, a cercare suo figlio nel silenzio. A me diceva sempre: tu non mi vuoi bene”.

Il primo ricordo di Mirella, la prima visione di sua madre, è di una donnina con un fazzolettone nero in testa che si tenne per dieci anni. Senza farle mai parola del padre.

Perso il marito lei era stata riassorbita dalla sua famiglia di origine ad occuparsi dei cinque fratelli maschi. Tutti emigrati poi in America gli zii di Mirella: chi in Canada, chi a New York, chi in Argentina. Lo zio che andò in Argentina trovò casette di legno e strade sterrate e pensò che sarebbe stato meglio vivere a Palmarola. E tenersi la sua vita da pescatore.

E per Mirella iniziò la lunga sequela dei collegi, delle suore francesi.

Viene da lì dunque la sua eleganza, il suo portamento? Lei salta su e con sguardo ironico dice: – “No da loro non è venuto niente. Proprio niente. Mi ricordo ancora, al collegio di Gaeta, il portone di ferro in fondo al viale alberato che si chiudeva alle mie spalle. La mia vita, la libertà dell’isola sparivano, restava solo un quadrato di cielo sulla mia testa. Vivevo castigata, soffocata. Come orfana di guerra non pagavo la retta e le suore subito ci provarono. – La mettiamo a ricamare – dissero a mia madre. E mia madre donna minuta con il suo foulard nero in testa si è fatta leonessa, ha tirato fuori le unghie. – Se era per ricamare me la tenevo a Ponza! E così, lottando, è riuscita a farmi studiare. Andò dalla segretaria dell’onorevole che all’epoca si occupava degli orfani, perché accelerasse l’espletamento della mia pratica, altrimenti, con le lentezze di allora, correvo il rischio di perdere ogni diritto. Mi portò dalla segretaria e le chiese: – Quanti figli avete? Due rispose lei. – Bene, disse mia madre, allora fate conto di averne tre. E fate in modo che anche la terza possa studiare.

Sono stata in tre collegi di suore, terribili suore, mangiando brodino e acciughe salate, pensavo a come sarebbe stata la mia vita se ci fosse stato mio padre. Ma non lo dicevo a nessuno. Mia madre soffriva il pullman ed il mare e non ce la faceva a venirmi a trovare. E nell’ultimo collegio a Palestrina uscivo ogni tanto per andare a  trovare una signora di Ponza che abitava a Colleferro. La madre superiora, probabilmente avvinazzata, sempre con il naso rosso e con un crocifisso da farci baciare, non si ricordava che avevo il permesso di uscita, e dandomi per dispersa, al mio ritorno mi fece una ramanzina terribile. Mi ripete’ più volte che avevo la mente bacata. Io avevo diciotto anni, ascoltavo i suoi rimproveri ma non sapevo cosa volesse dire avere la mente bacata”. – Dice sorridendo.

Forse sono stati quegli anni di desolazione ad indurla a ricostruire la parte luminosa ed ignota della sua vita.

Però il collegio a Palestrina alla fine l’ha aiutata. Quando, all’inizio della sua ricerca, la guardia costiera le ha inviato gli elenchi incompleti delle persone che erano a bordo, ha trovato il nome di una persona che veniva da Palestrina, subito ha contattato un’amica del collegio che insieme al marito l’ha aiutato a ritrovare il primo superstite. Il primo tassello del puzzle.

 

Lorenza Del Tosto

[Incontro con Mirella Romano (1) – Continua]

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