di Gabriella Nardacci
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“Cantami, o diva, del Pelìde Achille,
l’ira funesta, che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò…”
È l’inizio dell’Iliade, con l’invocazione nella quale Omero chiede alla Musa l’ispirazione del canto. In questo appello Omero non si presenta né come poeta né come aedo ma vuole apparire quasi come lo strumento materiale della Musa alla quale sola è riservato il canto, per mezzo del suo interprete.
È però talmente accattivante e solenne questa invocazione, che fa intuire i motivi della sua poesia: una malinconia struggente per giovani vite stroncate precocemente in un teatro di forti passioni sullo sfondo di una guerra. Un annuncio di scene orribili che poi nel poema non ci saranno ma che serve dire per attrarre l’attenzione di chi ascolta o legge.
Che cosa si può dire dell’Iliade se non tutto il bene possibile?
Non sto qui ad analizzare il poema. Quel che più mi è sembrato geniale è quest’invocazione iniziale, dove si evince chiaramente ciò che il poeta vuole raccontare e come lo presenta al pubblico. Un po’ come quando si compra un libro: si leggono le prime pagine, si sfoglia verso il centro. Se colpisce si acquista subito.
Così anche se demanda alla Musa il suo racconto, è Omero però che ne esce come aedo e poeta, e talmente sublimi sono i suoi versi che la Musa passa in second’ordine e si erge solenne e primaria tutta la sua poesia.
Poi fu la volta dei ‘menestrelli’ e dei ‘trovatori’ in epoca medioevale che aiutandosi con la musica recitavano e cantavano le gesta di eroi e cavalieri per arrivare ai cuntastorie e cantastorie che aggiunsero alle storie anche le ballate.
Non so per quale associazione mentale mi siano venuti in mente i carretti siciliani tappezzati d’immagini colorate o pronti a trasformarsi in teatri viaggianti con burattini e burattinai e pupi e pupari…
La Sicilia può definirsi la patria di tale tradizione.
Una mia zia aveva un carrettino siciliano con immagini coloratissime, piccolo come un camioncino-giocattolo. Era posato sulla televisione sopra una tendina che si apriva come un sipario sullo schermo e serviva a tenere fermi i lembi della tendina.
Sul carrettino, il cuntastorie raccontava, aiutandosi con la fisarmonica o con la chitarra, di cavalieri e dame ma anche fatti di cronaca. Conosceva l’arte della parola e imparava le regole della narrazione modulando la voce secondo il sentimento che esprimeva. Trattava sempre storie di lotte tra il bene e il male, tra la vita e la morte.
Preparavano un cartellone con alcune scene disegnate della storia che narravano e anche dei foglietti (una sorta di locandina) con la storia riassunta. Vivevano delle offerte degli spettatori e della vendita di questi foglietti. Spesso fermavano, volutamente, la recita sul più bello e allora la gente comprava il foglietto per vedere come andava a finire la storia.
Dopo gli anni 50, con il vinile, questa bella tradizione cominciò a diradarsi.
Qualche carrettino, per fortuna, ancora si vede e il teatro dei burattini attrae molti bambini i quali s’immedesimano nei personaggi schierandosi sempre dalla parte del bene e tifando per l’eroe che, puntualmente, sconfigge le forze del male.
Molti cantastorie siciliani sono noti. Si ricordano: Antonio Tarantino che scrisse storie di successo come “La storia di Salvatore Giuliano”, Rosa Balistreri e Rosita Caliò che cantano amore e rabbia, giustizia e libertà e nenie varie, Ciucciu Busacca con “Cantu Di Lu Carretteri”, Otello Profazio che ospitato da Gaber in televisione, cantò una bellissima “La baronessa di Carini” trasmesso anche alla Rai come sceneggiato e tanti altri ancora.
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La Baronessa di Carini cantata da Otello Profazio nella trasmissione televisiva di G. Gaber (“Questo e quello” – 1964), presenti anche Enzo Iannacci e Lino Toffolo
Tra i ‘pupari’, grande è il nome di Cuticchio, erede dell’Opera dei Pupi che è Patrimonio orale dell’Umanità dell’Unesco.
Nel cinema mi sovviene il film muto “Fricot” (1913) nome di un cantastorie che è uno dei protagonisti di un film, italiano, che si presta a numerosi siparietti comici in una sorta di commedia all’italiana;
La figura di Bron, anziano cantastorie del villaggio che racconta la storia dei cavalieri dei draghi in “Eragon” (2006), film non osannato dalla critica ma che qui in Italia ha avuto grande successo di pubblico;
la serie televisiva con “Buffy l’ammazza-vampiri”, immortale e in grado di mantenere l’equilibrio tra il bene e il male;
dal Giappone il grande disegnatore Sapei Schirato (1932) che realizzò disegni su fogli di carta e li espose al pubblico in una sorta di teatro di strada. Era una forma d’intrattenimento prima che esplodesse la televisione. In ogni disegno c’era una resa dinamica che dava l’illusione del movimento.
Con la televisione, il vinile, le musicassette fino agli attuali cd, tutta questa bella tradizione ha subito una calata d’interesse.
È un vero peccato che ci siano solo pochi portavoce e incantatori del tempo e delle piazze. La fonte orale non dovrebbe mai disperdersi nella tecnologia né si dovrebbe preferire la sintesi al racconto dettagliato.
Il ritorno al passato sarebbe auspicabile – una mano santa! – per i giovani di oggi per consentir loro l’esperienza del riavvolgersi del tempo attraverso la narrazione; sarebbe come ricordare le favole prima di dormire durante il periodo dell’infanzia.
Rivedere per le strade gli spettacoli di personaggi epici e fiabeschi sarebbe – oltre che diffondere aspetti bellissimi della cultura popolare – anche un incentivo ad approfondire poeti e poemi, storie e cronaca… magari fermandosi volutamente in un punto cruciale… per invogliare i giovani studenti a documentarsi e a studiare come vanno a finire le storie.
Proprio come facevano i cuntastorie e i cantastorie di una volta!
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’A barunissa ri Carini – La ballata popolare, illustrata nel cartellone del “Cuntastorie” Giovanni Virgadavola. Il dramma cinquecentesco, tramandato dai cantastorie, cantato da Gigi Proietti, sigla dello sceneggiato televisivo “L’Amaro caso della Baronessa di Carini” in quattro puntate, andato in onda nel 1975 dalla RAI.
La Baronessa di Carini si ispira a una ballata popolare siciliana, che narra di un delitto realmente avvenuto nel ‘500 a Carini: il 4 dicembre 1563 la baronessa di Carini, Donna Laura Lanza, moglie di Don Vincenzo La Grua-Talamanca, fu uccisa, ufficialmente per motivi d’onore, dal padre Don Cesare Lanza.
Il testo più completo de “La Ballata di Carini” nella versione di Otello Profazio, una delle innumerevoli versioni del poemetto anonimo giunte fino a noi, musicata da Romolo Grano
La barunissa di Carini
Chiangi Palermu e chiangi Siracusa…
Carini c’è lu luttu ad ogni casa…
Cu’ la purtò ’sta nova dolurusa
mai paci pozza avìri a la so casa!…
La megghiu stella ca rideva ’n cielu,
anima senza vesti e senza velu…
la megghiu stella di li serafini:
pòvera Baronessa di Carini!
Vicinu a lu casteddhu di Carini
và giriannu un bellu cavalieri…
Lu Vernagallu di sangu gentili,
chi di la gioventù l’onuri têni…
Ed ora pi lu chianu vi cumpàri,
supra un cavaddhu chi vola senz’ali…
Ora di notti cu lu mandulinu
sentiti la so vuci a lu giardinu…
Vôli scansari l’amurusi affanni,
e a tutti ’sti premuri non rispunni…
Ma dintra brucia di putenti fiammi
la barunissa, e tutta si cunfunni!…
Cci dici la ragiuni: “Lassa stari”;
ma ’o cori non si poti cumandari…
Ca la rragioni cci ha pocu valuri:
supra ogni cosa domina l’amuri!…
Lu munnu è fattu di ’nvidiusi e ’ngrati…
Lu fattu cci lu cùntanu a lu patri…
Afferra lu baruni spata ed ermu:
“vola, cavaddhu, fòra di Palermu!…”
La bella baronessa di Carini
stava affacciata nni lu so barcuni…
chi abbivirava li rose e li sciuri…
Cu l’occhi ‘n cielu e la menti all’amuri!…
Viju venìri ‘na cavalleria:
chistu è mè patri chi vêni pi mia!…
Tuttu vistutu a la cavallerizza:
chistu è mè patri chi vêni e m’ammazza!…
Signuri Patri, chi viniti a fari
Signura figlia, vi vegnu ad ammazzari
e lu baruni chinu di furori tira la spada
e ci spacca lu cori
lu primu corpu la bedda cadiu,
l’appressu corpu la bedda muriu
lu primu corpu l’ebbi ‘ntra li rini
l’appressu ci spaccau curuzzu e vini
Cutrritui tutti genti di Carini
ora ca è mortu lu chi beddu ciuri,
la megghiu stella di li serafini,
povera baronessa di Carini,
povera baronessa di Carini
Immagine di copertina: un’opera di Leonardo Albanese