Guarino Luisa

L’amore al tempo delle cabine telefoniche

di Luisa Guarino
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Non è neanche immaginabile oggi l’idea di poter vivere a Ponza senza cellulare, smartphone e Internet, non solo per fare ricerche di qualsiasi tipo ma soprattutto per comunicare con chiunque, dovunque. Ma non è stato sempre così, e chi scrive ha vissuto anni, anzi decenni, davvero pionieristici in questo campo. Quando c’era solo il telefono, e già sembrava una grande conquista. La linea era gestita da terzi, cui ti affidavi con fiducia e speranza: in un secondo tempo sono arrivati i gettoni, e poi le schede telefoniche. Naturalmente, oltre che a comunicare di tanto in tanto con parenti e amici che erano in terraferma, le telefonate servivano soprattutto a tenersi in contatto con l’amore lontano, in attesa che anche lui, o lei, potessero raggiungerti in vacanza nell’isola.

Naturalmente la conversazione era rigorosamente da fisso a fisso, e l’amato, o l’amata, dovevano farsi trovare rigorosamente in casa. Naturalmente poi nelle case di Ponza sono arrivati i telefoni fissi: ma da noi, che venivamo solo d’estate, l’apparecchio telefonico (sì, un tempo si chiamava così) non c’era. Le mie prime telefonate amorose hanno avuto come location la biglietteria Span sul molo: sulla sinistra c’era una cabina in cui si poteva appunto conversare. Naturalmente il servizio funzionava, se ricordo bene, solo quando la biglietteria era aperta. A me, credo per mia scelta, capitava di fare tappa lì sempre di piena mattina, motivo per cui ricordo sempre grande luce e sole forte. Il servizio era gestito da Silverio Califano, che faceva anche i biglietti: era una persona sempre disponibile, gentile e paziente, con un sorriso dolce e un modo di parlare “azzeccoso” (chiarisco, per chi non conosce il termine: è un complimento). Si dava a lui il numero da chiamare, e quando c’era la linea libera lui lo contattava e poi ti diceva che potevi entrare in cabina per parlare.

Erano invece prettamente serali, parlo sempre della mia esperienza, le chiamate che facevo in epoca successiva al Bar Panoramica: anche lì la cabina si trovava a sinistra, subito dopo l’ingresso. In quel caso, districandosi tra gelati, bibite, pastarelle, aperitivi, granite, e chi più ne ha più ne metta, il servizio veniva assicurato da Giulio Migliaccio e dalla moglie. Ma già il sistema era più avanzato: loro si limitavano a darti la linea, e poi il numero lo facevi tu. Non sempre il primo tentativo riusciva: spesso la linea cadeva e dovevi mettere la testa fuori per fartela ridare. Di quella lunga teoria di telefonate durata anni, più che le parole dolci scambiate con l’amato, ricordo le colossali sudate: infatti nella cabina bisognava assolutamente barricarsi, per difendersi dal rumore esterno.

Il tempo passa in fretta, almeno a guardarlo ora, da così grande distanza. Arrivano le cabine telefoniche, con porte a battente come nei saloon: quelle che frequentavo di più erano a Sant’Antonio, non distante dal capolinea dei bus, e sulla discesa di Via Roma, sotto il piazzale della chiesa. In quel caso tutto si gestiva in proprio: bastava armarsi di almeno mezzo chilo di gettoni, pronti a infilarli nell’apposita fessura quando un odioso segnale ti faceva capire che “il credito” stava per finire. Dopo, e insieme alle cabine, sono poi state montate quella specie di campane in plexiglass: certamente più ariose, però addio privacy.

Posto telefonico pubblico

Per un breve periodo ho avuto anche il fisso a casa, ma l’avvento dei cellulari, di Internet, Skype e via dicendo ha ben presto reso inutile la sua presenza. Tutto il resto… non e’ noia, tutt’altro, e lo conosciamo perfettamente. Era molto tempo fa ed ero tanto più giovane. Ma sinceramente quegli anni “telefonicamente” così difficili non li rimpiango per niente.

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1 Comment

1 Comments

  1. Adriano Madonna

    14 Aprile 2016 at 06:43

    Ho letto con piacere e simpatia l’articolo di Luisa Guarino, perché anch’io appartengo a quell’epoca e l’odore delle cabine telefoniche lo ricordo ancora. Vi sembrerà strano, ma le cabine telefoniche avevano un loro odore particolare: odore di chiuso e di sudore, ma con qualcosa di più, quasi che ansie, emozioni, passione, a volte sofferenza e dolore di chi telefonava, lasciassero qualcosa che si mescolava con i normali odori dell’ambiente.
    Il salto forte fu dalle cabine del centralino, dove l’operatore chiedeva la linea, a quelle a gettone e allora i gettoni diventarono beni preziosi, monete d’oro, quasi una sorta di… prezzo dell’amore!
    C’erano telefonate accorate da più di cinque gettoni, ma mi sembra di ricordare che di domenica il tempo raddoppiava, e telefonate brevi e concise: se ti limitavi ad un “ti amo” e qualche altra breve dimostrazione di passione con due gettoni te la cavavi. Forse perché le cose passate sembrano sempre più belle di quanto effettivamente siano state, ma l’amore al tempo delle cabine telefoniche, come lo chiama Luisa, aveva una marcia in più dei rapporti sentimentali di oggi e, naturalmente, parlo dell’amore dei giovani. Erano amori eroici, battaglie con genitori irremovibili (pensa a studiare che l’amore viene dopo!), guerre contro il mondo intero: quando ci si amava, si aveva la sensazione di dover difendere il proprio amore da tutto e da tutti.
    E poi c’erano i gettoni, stille di sangue che cadevano nella cassettina del telefono con quel rumore tipico, quello scatto metallico e crudele che mi sembra di sentire ancora adesso: una stilettata nel cuore. Il mio più grande investimento in gettoni lo feci per chiamare una fanciulla di Lodi e la storia durò a lungo. Capirai, andavo a pesca subacquea di notte, un giorno sì e uno no, tutto l’inverno, per racimolare i soldi e partire in terza classe (allora c’era la terza classe, quella con i sedili di legno) alla volta della Lombardia e, ovviamente, mi sentivo eroico… Avevo vent’anni! La fanciulla, manco a dirlo, la conobbi… a Ponza.
    Ma che cos’ha questa cavolo di isola?

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