di Rosanna Conte
Quante volte abbiamo sentito dire: Che brutti scherzi tira la memoria!
Sappiamo che la nostra mente elabora e rielabora i ricordi attraverso la memoria dandoci continuamente le coordinate entro cui muoverci, facendoci prevedere gioie e dolori, rischi e certezze, ma se elabora ricordi distorti ci dà esiti dissonanti che lasciano meravigliati noi per primi.
Ce ne ha dato un saggio Luisa Guarino in I brand dell’infanzia, l’imprinting, evidenziando il caso particolare in cui è il martellamento pubblicitario a distorcere il ricordo; ma il ricordo può essere, sfumato, alterato, cancellato, parziale o completamente sbagliato per i più svariati motivi.
Possiamo dire che noi siamo la stratificazione del tempo che viviamo, siamo cioè l’esito delle esperienze vissute nell’arco della nostra vita i cui ricordi si trasformano nel loro significato man mano che nuove esperienze sopraggiungono. Perciò si dice che la memoria getta un ponte fra passato e futuro, che non c’è futuro senza la memoria del passato.
Ma, poiché i ricordi, per quanto non sempre affidabili, ci restituiscono lo spessore e la qualità di noi stessi, ci piace recuperarne alcuni e rimuoverne altri.
Lo stesso accade con la memoria collettiva, quella delle comunità.
Tutte le vicende che l’hanno attraversata, cioè la sua storia, sono la comunità e una comunità senza memoria non è più tale.
E’ perciò importante non far cadere nell’oblìo il suo passato, specie eventi e vicende forti, cioè quelli che hanno lasciato il segno. Sarebbe sbagliato tendere a dimenticare fatti che giudichiamo negativi, perché anch’essi fanno parte della nostra esperienza, anzi, guai ad eliminarli perché è da essi che molto spesso impariamo ad evitare nuovi dolori e tragedie. Basta sapere che il piano del ricordo del fatto deve essere separato da quello del giudizio.
E’ questo il caso dei resti del fascio littorio sui Guarini?
Adele Conte, Argìa Mazzella, Bettina Guarino
21 aprile 1940
fotografo: Spartaco Vellucci
Anche i Cameroni ricordano il fascismo, ma sono stati restaurati e una targa all’esterno recupera la dignità, il valore e il sacrificio degli antifascisti che lì soggiornarono sottolineando la condanna collettiva del fascismo.
Il che significa che si potrebbe anche recuperare il fascio littorio (ammesso che sia possibile poiché è situato in una proprietà privata), o solo puntellarlo, ma dovrebbe essere affiancato da una lapide o altro che ricordi chi ha sofferto e si è battuto per abbatterlo.
Ovviamente, bisogna considerare se vale la pena impegnare energie e risorse economiche per avere un altro segno sul
territorio ponzese che ricordi il confino e il fascismo.
Forse avrebbe senso se sull’isola si fossero conservati/recuperati i segni dei limiti entro cui i confinati potevano circolare e si fossero creati percorsi da inserire in itinerari culturali e turistici includenti anche la localizzazione delle varie abitazioni utilizzate dai confinati, le mense o altri specifici luoghi che utilizzavano, come il campo della miseria, indicati da targhe.
Invece, una lapide per Salvatore Scotti, il ragazzino di dodici anni ucciso a freddo da un milite fascista, sarebbe doverosa, come giustamente ha rilevato Antonino Di Stefano, al di là di qualsiasi altro discorso.
Sulla pietra dovrebbe essere incisa in maniera chiara ed articolata la descrizione dell’assassinio, a memoria non solo della barbarie delle milizie fasciste, ma anche dell’offesa subita dalla comunità tutta.
Visto che amministratori di destra e sinistra, ponzesi più o meno colti, antifascisti e comunisti, in tanti anni non hanno pensato renderne pubblico il ricordo e a sottolineare la valenza collettiva di quella tragedia, c’è il rischio che vada dimenticata. E credo che Silverio Tomeo l’abbia raccontata in breve, ma in maniera articolata, proprio perché è più che prevedibile che siano pochi, ormai, a sapere di Salvatore Scotti e del trattamento riservato a suo padre.
Non è questo l’unico trauma vissuto dalla collettività ponzese nel periodo del confino, ma, insieme agli stupri di cui furono vittime diverse ragazze ponzesi, è certamente quello che non va assolutamente dimenticato.
Se consideriamo che dando più esperienza alla nostra memoria, più aumenta la possibilità di elaborare previsioni corrette, dobbiamo cercare di recuperare più ricordi possibili, negativi o positivi che siano.
E se non siamo capaci di recuperare ricordi alla nostra memoria, c’è poca speranza di rafforzare/ ricostruire l’identità della nostra comunità.
la Redazione
6 Febbraio 2016 at 15:03
Alcune proposte presenti nell’articolo di Rosanna collimano con quelle espresse da Giuseppe Mannucci che ha commentato il pezzo “Il fascio prima e dopo” di Silverio Lamonica.
La decisione di lasciarle così, rischiando di scivolare nella ripetizione, vuole esprimere la nostra convinzione che è tempo di fare qualcosa di concreto per evitare che episodi così tristi cadano nella dimenticanza.
Silverio Guarino
6 Febbraio 2016 at 18:41
Vivo da 53 anni in una città che si chiama Latina, ma che è nata come Littoria; Latina è piena di fasci littori, a partire da quelli del balcone del Palazzo della Prefettura, a quelli ancora presenti sui tombini della città (con il nome “Littoria”).
Nessuna “damnatio memoriae”, quindi, e se qualche vecchio (o giovane) nostalgico (e qui ce ne sono tanti) ostenta ancora il saluto “fascista” in questa città che non è mai stata di sinistra (almeno finora), solo pietosa tolleranza ed ammiccamenti di circostanza.
Niente più.
Latina, dove è nato, ricordiamolo, il “Fasciocomunista” di Antonio Pennacchi.