Sono un insegnante e per esperienza tristemente acquisita non nutro più alcuna speranza che quando viene annunciata una (l’ennesima) ‘riforma’ del sistema di istruzione questo riguardi in realtà una sincera intenzione di migliorarlo, renderlo più efficiente, adeguarlo ai tempi e ai bisogni.
So, dopo averne viste almeno quattro, che non una di esse ha mai raggiunto effettivamente lo scopo che si prefiggeva o che annunciava: sempre realizzava invece una precisa strategia, spesso opposta, ma sempre di carattere economico, mai didattico ed educativo.
Il fatto che ne siano necessarie in continuazione, di ‘riforme’, dimostra come il sistema sia stato sempre gestito in modo approssimativo e per fini diversi da quello per i quali era stato creato: i piani di ristrutturazione erano nient’altro quindi che soluzioni tampone destinati a perpetuarne la gestione e a consentirgli di restare sostenibile per il sistema paese senza investimenti.
Chi ricorda gli otto miliardi di euro sottratti al bilancio scassato dell’istruzione con i quali furono pagati i debiti di Alitalia durante il famoso ‘salvataggio’ perché non si vendesse ad Air France mentre con i restanti si finanziò l’eliminazione della tassa sulla prima casa, sa di che parlo.
Sono un insegnante e dunque sono di parte. Lo sono anche in occasione di questa ultima ri-forma (io la chiamo de-forma e mi prendo infantile rivincita semantica: minaccio sfracelli ululando alla Luna…) che nonostante sia stata varata da un governo monocolore in stile di quelli che negli anni’60 la scuola di massa inventarono e crearono (avevamo il più alto tasso di analfabetismo d’Europa, ci fu detto che per il bene dell’economia occorrevano diplomati e laureati, altrimenti avevamo solo emigrati e contadini…) viene orgogliosamente rivendicata con diritto di primogenitura esattamente dall’opposizione e da quella che già era autrice dell’ultimo importante tentativo di privatizzare il sistema pubblico in nome dell’ideologia aziendalista.
Il che non depone certo a favore dell’attendibilità di tutte le dichiarazioni, le rassicurazioni perentorie, le promesse urlate in televisione, i rimbrotti stizziti, le dichiarazioni piene di numeri e di statistiche con cui il battage mediatico ha sostenuto per molti mesi questo nuovo intervento che in molti invece valutiamo come approssimativo, autoritario e frettoloso.
Sono un insegnante pignolo e quindi puntualizzo: condivido molte delle affermazioni che sono state fatte e sottoscriverei senz’altro alcuni degli obiettivi che questa riforma dichiara (urla! Spesso per bocca dello stesso ministro, ma più spesso dell’irridente capo del governo) e sono convinto da molti anni, e soprattutto per una casistica infinita accumulata nel corso di quasi quattro decenni di lavoro, che il ‘sistema’ non sia adeguato e che vada radicalmente cambiato.
È solo che non mi fido affatto delle dichiarazioni e guardo ai famosi ‘fatti’, i quali – in maniera subdola, abilmente camuffata, sempre celata dietro uno schermo di promesse, anticipazioni, dati gridati – non sembrano confermare le intenzioni ma realizzare tutt’ altro piano, tutta un’altra ‘visione’ della scuola.
Ho vissuto con molto timore l’arrivo di settembre, dopo tanti anni e pur lavorando tutta l’estate alla preparazione della mia nuova pianificazione proattiva (alla faccia dei tre mesi di vacanza!) dopo l’approvazione-con-ricatto in Senato del nuovo anno scolastico: siamo abituati ai colpi di mano e le deleghe che questa legge riconosce al governo gli permetterà con un semplice “decreto d’urgenza” di variare praticamente tutto quello che un tempo era materia di contrattazione, per esempio l’orario di servizio e le incombenze annesse alla funzione-docente.
Sono un docente e ho paura che l’ennesimo intervento nella mia vita di insegnante distrugga quello che resta della mia dignità e autostima di professionista, faticosamente preservati in questi anni anche quando a Milano si diceva che fare l’insegnante ‘l’è un mesté de barbùn’ o quando, come per le barzellette sui carabinieri, si diceva che ‘se niente sai fare va’ ad insegnare’.
La stessa preoccupazione che leggo nelle comunicazioni dei docenti ‘precari’ di seconda fascia, quelli costretti in modo, bisogna dirlo, ben autoritario, a chiedere sì di continuare a lavorare nella scuola come fanno da cinque, dieci anni e più ma di fare domanda in tutte le provincie italiane e dunque ad esporsi alla possibilità di essere chiamati ma in una provincia lontanissima da quella di residenza.
Per come è stata raccontata questa vicenda è quasi scorante da dipanare. Ci provo, soprattutto ricordando che io sono semplicemente partito con la classica valigia per andare a cercarmi un posto di lavoro lasciando tutto e… non facendo più ritorno: ricordando gli undici anni di precariato e i quattro concorsi prima di approdare al sospirato incarico a tempo indeterminato.
Ma ricordandomi anche che io avevo allora 26 anni, che non ero sposato e che per dieci anni ho vissuto in un monolocale senza servizi igienici, una ‘casa di ringhiera’ nel centro di Milano, solo perché era una posizione strategica per potermi spostare nelle quattro direzioni cardinali e in tempi utili nel caso mi avessero chiamato a Treviglio o ad Abbiategrasso.
Moltissimi dei precari di oggi, ai quali è stata fatta balenare la prospettiva del contratto definitivo sono già, in realtà, quelli che permettono alla scuola di funzionare. Senza di essi semplicemente essa si fermerebbe.
Si tratta di professionisti che molto spesso sono meglio formati e ricchi di esperienza rispetto agli stessi insegnanti di ruolo, a volte inamovibili cariatidi di un altro secolo (e intendo l’800) o abili opportunisti entrati di ruolo senza concorso o con concorsi svolti in province italiane dove il tasso di promozione era superiore al 100%.
Vorrei ricordare a me stesso che l’ex ministro della pubblica istruzione si iscrisse, da Brescia, alla sessione d’esame di Reggio Calabria dove fu anche promossa: vai a sapere perché.
Questa riforma in realtà, per come era stata presentata a ottobre dello scorso anno, non prevedeva alcun piano di immissione in ruolo della portata che poi è stata tanto sbandierata (‘La prima riforma che assume!’ ‘100.000 docenti in ruolo’): fu la Corte Europea che condannò l’Italia ad assumere 160.000 docenti che l’Italia classificava come ‘precari’ e ‘supplenti temporanei’ mentre invece lavoravano stabilmente e continuativamente da moltissimi anni, alcuni da quindici e più: dunque non lavoratori precari ma persone, professionisti e famiglie tenuti volontariamente in condizioni di sudditanza e precarie ed usati sotto ricatto continuo come utile ‘massa di manovra’ e lavoratori di riserva.
Ogni anno licenziati. Ogni anno riassunti, a tempo: spesso attraverso i buoni uffici e l’interesse dei dirigenti che sotto urgenza aiutavano – sempre in modo legalmente ineccepibile – gli amici a fare domanda dove si prospettava la possibilità di un po’ di lavoro.
Dopo questa condanna, improvvisamene l’agenzia pubblicitaria della riforma ha trasformato uno smacco in un cavallo di battaglia e questa è diventata la ‘riforma che assume’. Anche il numero ufficiale, 100.000, fu ritoccato perché fosse spendibile nelle dichiarazioni ad effetto: e gli altri 60.000?
A parte i docenti delle graduatorie a scorrimento e quelli già abilitati, in questa terza fase 71.000 persone hanno fatto domanda per diventare titolari di cattedra ma in un sistema dove se ci sono professionisti non ci sono cattedre e se ci sono cattedre (per un normale effetto demografico, per la densità scolastica) non si sono aspiranti.
Ecco allora la necessità di ‘riequilibrare’ il sistema, di costringerlo (a spese degli aspiranti docenti) a riequilibrarsi spingendo i lavoratori ad andare dove il lavoro è disponibile.
Niente di male, direte voi, che c’è di strano? In fondo oggi se vuoi lavorare devi partire, lo fanno in tanti, lo facemmo anche noi e solo per diventare precari, per lottare in provveditorato per non farci fregare la cattedra disponibile in un oscuro paesetto del milanese, per garantirci almeno qualche mese di supplenza vivendo da bohémien ma senza cesso nelle case di ringhiera dei vari quartieri latini delle grandi città del norditalia.
Ma provate voi invece a spostarvi adesso: avete solo quindici giorni per accettare l’incarico triennale ma non avete più neanche il paracadute di un possibile trasferimento di ritorno: le domande di trasferimento ad hoc sono state eliminate, se si chiede di esser trasferiti si finisce in un ‘calderone distrettuale’, una specie di limbo dal quale se vogliono i dirigenti possono attingere risorse utili al loro ‘piano dell’offerta formativa’: una specie di agenzia interinale a gestione interna e statale.
Provate voi a lasciare famiglia, affetti, interessi, genitori quando già avete alle spalle dieci o quindi ci anni di lavoro, quando avete frequentato corsi di specializzazione, scuole di perfezionamento, seminari di formazione a pagamento e a trasferirvi in una provincia del nord, da veri emigranti, dove non avete scelto di vivere, parlare la lingua, stringere reti amicali, fare vita sociale o sportiva o semplicemente di gruppo: con l’unica motivazione esistenziale che è quella di andare a lavorare in una scuola e non sapete neanche di che tipo è.
Sono state solo 71.000 le richieste: gli altri 35.000 hanno rinunciato al ruolo. E forse, per assurdo, restando precari hanno moltissime chance di lavorare nella loro zona di residenza sulle supplenze, anche lunghe, che questo escamotage di spostare manodopera dal Sud al Nord non eliminerà di certo: perché noi non siamo semplici operai, con tutto il rispetto per gli operai, non siamo intercambiabili, sostituibili a piacere, de-localizzabili alla bisogna ( ma quale operaio accetterebbe pur di mantenere il proprio posto di lavoro di trasferirsi, seduta state, a 1300 chilometri di distanza? Chi andrebbe a pagare affitti onerosi essendo proprietario della casa paterna? Non si parlerebbe di ‘deportazione’ come qualcuno ha fatto, un po’ esagerando, ultimamente?): la campagna di violenta delegittimazione del lavoro degli insegnanti (lavorano poco, hanno tante ferie, non fanno niente) mira proprio a creare nell’opinione pubblica la sensazione che siano tutti sfaccendati e che sia giusto trattarli con una certa ‘fermezza’ per riportare ordine nel sistema.
Ne conosco molti che non fanno quello che dovrebbero nella pubblica amministrazione e anche nel sistema privato, molti di più di quanti ce ne siano nella scuola italiana che, lo ricordo, è la più grande azienda del mondo dopo la Wall Mart per numero di addetti: non mi risulta che si sia mai provato a trattarli con lo stesso supponente disprezzo, con lo stesso bavoso livore con cui spesso vengono additati al pubblico ludìbrio quelli ai quali affidiamo l’educazione dei nostri figli.
È appena il caso che un sondaggio Istat ha rilevato che la fiducia degli italiani nel sistema pubblico dell’istruzione è altissima, più dell’80% degli intervistati. A quanto pare il governo invece pensa che un sistema gestito in modo ‘aziendalistico’, con la ‘mano ferma’ di una intrapresa privata possa riportare ordine ed efficienza, premiare il merito e scacciare i malvagi per sempre. O almeno fino alla prossima riforma d’urgenza da spendere prima delle elezioni.
Io sono un insegnante, dunque sono di parte: fra un piano di ‘razionalizzazione economica’ autoritario e orientato ad un sistema semi-privato e le ragioni degli insegnanti che la buona scuola già la tengono in piedi, mi schiero con gli insegnanti, fra cui ci sono molti che stimo e che ammiro: mi schiero con i docenti della primaria, che era il nostro fiore all’occhiello mondiale, una scuola praticamente tutta montessoriana fino alla riforma Moratti; mi schiero con quelli della secondaria, abbandonati all’arrogante gioventù digitale dopo la riforma Gelmini e con quelli della secondaria superiore che tentano di completare la formazione dei cittadini di domani, spesso ancora riuscendovi, nonostante la riforma corrente addebiti loro tutti i problemi che la cattiva gestione politica e interessata della scuola ha causato al sistema.
Perché ci sono tanti professionisti seri e persone per bene che meritano attenzione e rispetto.
Di Bruno Santoro già abbiamo pubblicato sul sito l’esperienza di insegnamento della Poesia – leggi qui – Il primo articolo comprende anche informazioni biografiche sull’Autore
Sandro Russo
5 Settembre 2015 at 10:48
In assenza di commenti sul sito – il pezzo risulta molto letto, ma nessuno ancora ha fatto commenti – riporto la breve lettera di un lettore di Repubblica, pubblicata su questo giornale nella “Rubrica Lettere Commenti & Idee”, pag. 26 del 2 settembre u.s.:
“Ma perché tutta questa cattiveria nei confronti degli insegnanti, questo sarcasmo inopportuno e inutile nei confronti di chi viene messo nelle condizioni di soffrire per l’allontanamento dai propri affetti? È una guerra tra poveri dove il cinismo regna sovrano. Dobbiamo opporci tutti quanti a questa disumanità che hanno introdotto nel mondo del lavoro, dobbiamo opporci con ogni mezzo a questo tentativo di annullare tutti i diritti conquistati precedentemente. Basta con la logica che se hai un lavoro devi tacere e ringraziare, senza nemmeno provare a chiedere che le condizioni siano migliorate. Il lavoro è un mezzo per vivere, non il fine del vivere. Se si lotta per i propri diritti, il proprio rispetto, la propria dignità, è anche per chi un lavoro non ce l’ha ancora, perché non venga umiliato, ricattato, perché non abbassi la testa. A tutti i colleghi precari che sicuramente hanno passato la peggiore estate della loro vita, bisogna solo esprimere una sincera solidarietà.”
Antonio Vacca — Bisceglie
Enzo Di Fazio
5 Settembre 2015 at 15:12
Trovo estremamente toccante lo sfogo di Bruno Santoro.
Non entro nel merito della riforma perchè penso che per parlarne a ragion veduta bisognerebbe conoscere bene il mondo della scuola di cui non ho mai fatto parte. Certo, se di riforme se ne fanno tante significa che una buona ancora non c’è stata.
Qualcosa comunque voglio dire sulle assegnazioni dei posti a ruolo che, in tantissimi casi, stanno determinando problemi e disagi a chi deve spostarsi, soprattutto dal sud verso il nord, al punto che qualcuno ha parlato di “deportazione”.
Ho lavorato per circa quarant’anni in tutt’altro settore muovendomi, a seguito di trasferimenti (ne ho subiti ben undici), lungo tutto lo stivale. Ed in ogni luogo ove mi sono sistemato – a volte da solo, altre volte con la famiglia – ho dovuto fare i conti con l’ambiente, con la gente del posto, con il costo della vita diverso da una città all’altra. Una delle caratteristiche/qualità che ci veniva richiesta era la “capacità di adattamento”.
E’ un po’ quello che si chiede oggi anche all’insegnante che deve “migrare”. Con una differenza, però, non da poco: a noi venivano riconosciuti uno stipendio dignitoso, un’indennità di trasferimento ed il contributo alloggio.
Ecco, io penso che l’insegnante è stato sempre mal pagato e questo “mal-trattamento” è stato sostenuto da quella che Bruno chiama campagna di violenta delegittimazione (lavorano poco, hanno tante ferie, non fanno niente). Oggi ad aggravare la situazione ci sono i problemi del taglio delle spese e della finanza pubblica.
Non si è mai riusciti a far passare il concetto che il ruolo dell’insegnante, a partire dalla scuola materna per finire alla docenza universitaria, è tra quelli importanti su cui una società moderna deve maggiormente investire se vuole crescere e progredire. La formazione e la preparazione, assieme all’educazione che si realizza in famiglia, sono basilari per modellare dei buoni e capaci cittadini. Ma mi sembra che nessuna delle riforme sia mai riuscita a mettere al proprio centro, per valorizzarla, questa figura così importante; piuttosto hanno contribuito ad aumentarne, nel tempo, le frustrazioni.