Nel periodo della guerra, tutto era più difficile; la panificazione era possibile purché arrivassero i bastimenti di Totonno I che portavano la farina.
I carabinieri, prelevata la farina, la consegnavano ai forni razionata, così come doveva essere il pane che veniva ulteriormente pesato dalle guardie, per controllare e si prelevava solo con la presenza della tessera.
Per produrre più pane, nel periodo di fame nera, si aggiungeva più acqua in modo tale che rimanesse mollo, senza forma, ma non cattivo. Questo pane veniva cotto e conservato in casa di Bonaria in modo tale che quando veniva qualcuno che aveva fame gli si dava un pezzo in più per tentare di sfamare. Ovviamente si pensava prima alla famiglia e poi anche agli altri.
Giovanna mi racconta che un giorno da sopra al campo scesero quattro bare bianche portate a spalla dai familiari: era quattro bambini morti di fame.
Uno escamotage ideato dai politici comunali era dichiarare che il mare avesse inumidito le sacche e che la farina fosse rimasta attaccata in esse, in modo tale che se la pesata risultava diversa dal dichiarato non era colpa loro, ma la farina mancante era inutilizzabile; questa veniva definita “tara sacca” ovvero sciupo di farina per intendere che la farina era andata persa in mare.
Un giorno in panetteria arrivò una zia da Frontone che aveva i figli in America e il marito malato. Dal nuovo continente le provviste non arrivavano e i due se la passavano tristemente. La donna, così andò a chiedere aiuto a Bonaria per un pezzo di pane. Pane non ce n’era e la piccola Giovanna, impietosita da questa parente, decide di cedere la sua fettina di pane quotidiana. La zia rimase così colpita da quel gesto che finita la carestia, con i primi arrivi dall’America portò dei doni a Giovanna per ringraziarla di averla aiutato quando ne aveva avuto bisogno.
Per rendere l’idea di come in tempo di guerra e carestia non si buttava via niente, Giovanna, mi racconta un altro episodio curioso accadutole.
Lei aveva come abitudine di andare a dormire dalla nonna; lungo la strada del ritorno incontrò un bambino di nome Gerardo, con in mano delle mollichine di pane che le disse: “Guarda tua mamma che mi ha dato!” Giovanna corse a casa piangendo perché la mamma a lei quel regalo – molliche di pane conservate in un cassetto e regalate ai bambini quando passavano dal forno – non le aveva mai fatto! La mamma la rimproverò aspramente per quel capriccio inutile.
La panetteria di Bonaria, passò al figlio Giuseppe che fin da piccolo aveva visto prima la madre e poi il padre panificare. Fino al 1963 Gennaro Mazzella (papà di Giuseppe, l’avvocato e ns. redattore) scendeva ad aiutare a fare il pane e consegnarlo, anche perché Peppe era lontano da Ponza per fare il militare, al suo ritorno prese le redini del forno.
Peppe mi ha detto che ha prodotto pane per 75 anni, ora è in pensione e il suo posto lo ha preso il figlio Silverio.
Il forno prima non era situato dov’è adesso, in via Staglio, ma sulla strada al lato di sopra, per intenderci dove c’è l’albergo le Querce; di lì è stato spostato solo nel 1972. Con l’arrivo della corrente elettrica il lavoro manuale è stato sostituito da una impastatrice acquistata di seconda mano che spesso si rompeva. Chiamavano un signore soprannominato Mariazzu che l’aggiustava in cambio di una ‘palata’ di pane. Ovviamente per lavorare di più non pensava a una soluzione definitiva al guasto, ma lo riparava alla buona. Un giorno a risolvere il problema andò il suo collaboratore Maurino che sostituì la vite di ferro che si spezzava sempre con una d’acciaio. E al ritorno con resoconto dell’accaduto Mariazzu lo rimproverò dicendo: “Brave! E mò hamm’ fernùt’ ’i mangia’ pane!”.
Il legno usato per alimentare il forno era recuperato da Giuseppe tra quelli stracquati in spiaggia e dai bastimenti in demolizione.
Nel 1973 il forno ebbe un’ulteriore evoluzione passando ad una doppia alimentazione a legna e nafta; dal 1993 esso è a nafta ed elettricità. Hanno provato anche ad usare le bombole del gas per alimentarlo, ma non era conveniente.
Prima si consumava molto più pane rispetto ad adesso: le famiglie erano più numerose, si compravano i chili di pane e si conservavano in casa, anche da secco era buono e non veniva sprecato niente. Oggi, con una popolazione invernale scarsa e quello che arriva da fuori, il pane è un alimento sempre meno consumato; oltre alla diffusione delle diete che tendono ad escluderlo (come sottolinea Peppe).
Il panino e tutte le tipologie di pane che ci sono adesso, non esistevano; solo le freselle sono rimaste immutate: c’erano prima e ci sono oggi.
L’altro forno importante a Santamaria era di ‘Jack’, Gioacchino Mazzella, situato in via Loggia, poco prima del ponte per andare in via delle Pezze.
Così come per Bonaria, il forno era gestito dalla moglie di Jack, Maria Mazzella perché il marito lavorava in America. Il forno passò poi al figlio Generoso e poi a suo figlio Dario, prima della chiusura definitiva.
Dario mi ha raccontato quel poco che si ricordava.
Il forno era fatto di mattoni refrattari a pianta circolare di diametro di 3 metri e mezzo; intorno alla struttura, per mantenere il calore, venivano attaccate pietre tramite sabbia e calce idrata. Spesso i forni venivano scavati direttamente nella montagna. La legna, quando non proveniva dalla stracquatura o dalla dismissione dei bastimenti, era portata in fascine da Palmarola e Zannone.
Il forno di Jack produceva circa 100 kg di pane e nel periodo del domicilio coatto si arrivò alla massima produzione con circa 4-5 infornate. Si utilizzava il pane da chilo in quanto fino gli anni ’70 il pane aveva un prezzo massimo stabilito dallo Stato: 150 lire al kg.
Per sottolineare come il momento dell’impastatura era particolarmente duro, Dario, mi racconta che a lui dicevano che c’era un fornaio soprannominato Zotte, piedi, perché impastava con essi per stancarsi di meno.
Dario mi racconta anche della “guerra del pane” avvenuta a Ponza con la nascita del vapoforno di ‘Barbetta’, della famiglia Migliaccio al porto, che in maniera imprenditoriale sbagliata, voleva sbaragliare gli altri forni con la diminuzione del costo del pane, puntando sulla produzione di grosse quantità per ammortizzare il costo) ; questa ‘guerra’ durò circa 4-5 anni e poi a fallire fu proprio il promotore di tale iniziativa.
Il forno di Dario ha chiuso circa una quindicina di anni fa. Io ricordo suo padre, Generoso – tanto amico di mio nonno – che con aria simpatica si sedeva dietro al bancone e aspettava i clienti. Poiché era proprio sotto casa mia spesso mamma o nonna mi mandavano da lui a prendere il pane.
Dopo la sua chiusura dovevo fare un tragitto appena più lungo, fino al vapoforno ’i Pepp’ ’i Bunaria, dove Peppe e sua moglie Eva mi aspettavano con il pane da portare a casa. Essendo già più grandicella, nonna, per ringraziarmi del servizio che le facevo mi dava qualche spicciolo in più per comprare l’ottima pizza ripiena con cui fare spuntino a metà mattinata.
L’attuale forno di Dario e (sotto) il suo interno. Dario ha riprodotto il vecchio forno nel suo giardino
Oggi, il pane non tocca più a me andarlo a prendere, Generoso non c’è più, ma mi ha fatto enorme piacere raccogliere i ricordi di Dario; Peppe così come Eva sono ormai in pensione, ma quando torno la notte a casa, Santamaria odora ancora di pane e farina che si disperde nell’aria e fa riaffiorare i ricordi passati.
Sicuramente, ogni volta che sentirò l’odore di pane e lo consumerò a tavola ripenserò a questo fantastico viaggio nel passato, ad un lavoro fatto di sacrificio e dedizione.
Ringrazio Giuseppe Mazzella, l’avvocato e mio co-redattore, che mi ha fatto immergere in questa realtà; Dario, Giovanna, Giuseppe e Eva che mi hanno aperto il loro cuore e donato i loro ricordi da condividere con tutti voi.
Martina
[Comm’è bbuono ‘u pane. (2) – Fine]
Per l’articolo precedente, comprensivo dei riferimenti bibliografici, leggi qui
silverio lamonica1
15 Luglio 2015 at 11:40
Anche io, da ragazzino, andavo a prendere il pane da Bonaria e poi da Giovanni D’Atri. Ricordo che il pane si vendeva a peso: un tot al chilo; spesso le “palate” (filoni) non raggiungevano il chilo, per cui il panettiere aggiustava il peso tagliando un pezzo da un altro filone (‘a jonta = l’aggiunta) che veniva immancabilmente consumata nel tragitto verso casa.
Un giorno capitò che il fornaio mi consegnò solo il filone.
– “E ‘a jonta nun m’a daje?” – chiesi ansioso.
Mi rispose: “E’ asciuta ‘i ‘nu chilo esatto… p’a via stacc’ ‘u culurcio e mangiatìll’!”.