Dialetto

Il problema della lingua. Gli animali fantastici

di Sandro Russo

Sono stato precocemente bilingue. Adesso quelli fortunati hanno il padre italiano e la madre inglese… per dire, e vivono a New York.

In tempi più autarchici io avevo il padre di Cassino e la madre di Ponza e d’inverno stavo lontano dall’isola. Ci tornavo nei quattro mesi di una lunghissima estate, per tradizione dal 29 giugno fin quasi ai primi di ottobre, alla riapertura delle scuole.

Nell’infanzia e da ragazzino, nella mia stessa condizione erano molti dei miei amichetti: Luisa e Silverio che vivevano a Latina, Franco, che d’inverno stava a Formia, Mimmo a Napoli, Fausto a Roma, Silvana a Cormons (GO) e vari altri…

Il bilinguismo aveva più svantaggi che vantaggi: portava ad essere presi in giro sull’isola, per l’accento furastiere; e al ritorno alla residenza abituale, per la calata napulitana. Ma con le capacità mimetiche tipiche dei bambini riuscivo a supplire a questi inconvenienti – entro certi limiti – e a parlare, quasi senza inflessioni, le due lingue: nel mio caso, il cassinese (cassinate) e il ponzese.

Tra i vantaggi c’era la partecipazione ad un immaginario fantastico duplice, che mescolava insieme gli elementi delle due sub-culture.

 

Animali fantastici

U’ vermeglione.
Nella descrizione di mia madre, tra le poche persone al mondo ad averne un’idea precisa, è una specie di verme che vive nella testa delle persone; esattamente nella galleria che collega un orecchio all’altro. Il cunicolo viene continuamente perlustrato, appunto, da parte d’u’ vermeglione, che è perciò fondamentale per una buona funzione uditiva.

Questa storia è poco nota alla medicina ufficiale, forse perché u’ vierm’ e la stessa galleria, sono troppo sottili anche per essere svelati dall’esame TAC. D’altronde una prova inoppugnabile sono le deiezioni che il verme deposita indifferentemente all’una o all’altra estremità della galleria, di colore giallastro e odore caratteristico: fenomeno di cui la scienza non ha dato finora una spiegazione soddisfacente…

 

L’orinott’.
Era un animale sporchissimo cui venivamo continuamente paragonati noi bambini: “Te sì fatt’ comme’nn’orinott’..!”.
Pensavamo che dovesse emettere un vago odore di orina (…da cui il nome, probabilmente!).

A posteriori si è riconosciuta l’importanza dell’orinott’ nel distinguere i ragazzini di campagna da quelli di città. Questi ultimi infatti si considerano grandi quando arrivano a scoprire come nascono i bambini. Tale evento è del tutto banale e privo di mistero per chi é sempre vissuto tra vacche, pecore e cagne che si accoppiano e sgravano in continuazione.

Il passaggio dall’infanzia alla fanciullezza nel mio gruppo fu segnato dalla scoperta dell’inesistenza dell’orinott’ (segno evidente di sviluppo di un pensiero autonomo), e coincise con la rivelazione delle insidie e meraviglie della lingua

 

U’ lattupard’.
Animale estremamente pigro, di aspetto intermedio tra una foca e un felino; è aduso stazionare tra gli scogli o sulle spiagge, in una certa isola del Tirreno, in posizione assolata e tranquilla. Di pelle scura, si sente uggiolare, a volte, perché il sole scotta troppo. Ciononostante non cambia posizione, né cerca un posto più riparato.

Non ha particolari bisogni, accetta però cibo e attenzioni varie, purché gli vengano elargiti senza impegno, necessità di movimento o obbligo di restituzione.
Sta abitualmente da solo, non tanto per scelta, ma per indolenza.

Gli altri animali lo evitano, ma sotto sotto lo invidiano.

 

‘Quella’ colomba e ‘quella’ stia.
Nel paese dove vivevo per la maggior parte dell’anno, ‘la stia’ è una specie di gabbiotto dove si tengono le oche.

Trasferito sull’isola nei mesi estivi, mi trovavo più o meno obbligato a seguire le mie zie – donne molto pie – nelle loro devozioni in Chiesa. Avevo imparato i canti sacri e cantavo con loro.
Uno mi lasciava un po’ perplesso. Quello che fa: “T’adoriamo o Stia Divina… T’adoriamo, o Stia d’Amor…”
Da piccolo non mi ponevo particolari problemi, e continuavo a cantare convinto. Più in là pensai che si trattasse della gabbietta dove si teneva la Colomba dello Spirito Santo, per non farla volare tra un miracolo e l’altro; che diventava essa stessa ‘divina’, per via del contenuto… (?)

Poi venne l’età della consapevolezza, e solo allora capii che non di Stia trattavasi, ma di Ostia divina …Ma se mi capita, continuo a cantarla nel vecchio modo!

 

U’ pappece d’i’ faccie
(Acarus plissettator liquefaciens)E’ un acaro della stessa folta e famigerata famiglia di parassiti cui appartengono anche gli acari dei materassi. Invisibile ad occhio nudo, è stato solo recentemente studiato al microscopio ad alta risoluzione e descritto nei suoi caratteri morfologici.

Il parassita è ubiquitario; attacca l’intera persona, ma soprattutto le facce, e non determina segni o sintomi a prima vista evidenti.

Provoca uno slargamento dei tratti del viso, a malapena apparente se non per raffronti a distanza di tempo o per comparazione di fotografie prese in epoche successive. L’effetto del parassita sulle facce è simile all’azione del calore su un oggetto di cera: i tratti del volto rimangono riconoscibili, ma in qualche modo deformati ed espansi.

Gli ex compagni di liceo ne sono particolarmente colpiti, con una incidenza statisticamente superiore alla popolazione generale; con la stessa (elevata) frequenza sono interessate le conoscenze occasionali e anche antichi amori.

L’acaro si nasconde nelle pieghe del tempo.

 

 

3 Comments

3 Comments

  1. Annalisa Gaudenzi

    21 Febbraio 2024 at 12:20

    Sandro sempre magistrale. Pezzo divertentissimo, ho immaginato vermi e abitatori strampalati corredare la tua infanzia. Come pure ho ripensato alla mia. Gli esseri umani in fondo sono due gambe, due braccia, un tronco, una testa. E le varianti non di grande interesse, se non per i razzisti. Oppure per i medici vocati ad alleviare sofferenze a portatori di handicap. E mi sia perdonata l’estrema semplificazione, indubbiamente rozza eppure essenziale. Gli animali – al confronto – sono alati, uncinati, marini, invertebrati, notturni e via via, con miliardi di declinazioni. E poi dicono che i fantasiosi, i creativi… siamo noi

  2. Tano Pirrone

    26 Agosto 2024 at 16:47

    Bravo Sandro, ottimo pezzo – magistrale, per seguire la predecessora Gaudenzi: di animali fantastici della nostra infanzia ce ne sono stati tanti ed hai fatto un’opera meritoria nell’evocarli. Se calano altri tre punti nel forno in cui siamo infornati, giuro che ne scrivo. Intanto però te ne anticipo uno, prediletto dalle donne, le quali a noi bambini parlavano di una sorte di essere che viveva nascosto nella casa ed era capace di cose grandiose. Quando ne parlavano, scattava sempre qualche veloce sguardo d’intesa e accennati furbeschi sorrisetti di compiacimento: era il mitico “Farfaricchiu ch’i peri pilusi”! Farfaricchio è un diavoletto che ha una ricavata e ricamata letteratura, ma che, a cavallo degli anni ’50 nelle Sicilia ancora classica, addormentata in un sonno vecchio di millenni, le donne, nella loro lingua, avevano eletto a rappresentazione dell’eterno mascolino, un poderoso membro, con i piedi affondati in una abbondante e aggrovigliata peluria nera. Lo scoprii, quando fu ora di scoprire i misteri del sesso e le funzioni che il pipino indegno di cui eravamo dotati avrebbe dovuto avere nella nostra storia, e anche del piacere e della gioia, nostra e delle nostra compagne.
    Che bello ripensarci, e ritrovarci in tempi perduti, che oggi pensiamo grevi e penosi, ma che noi ricordiamo come misteriosi e gloriosi al contempo. Averli vissuti ci ha fatto diventare uomini amanti del bello e del mistero, delle ombre del crepuscolo e delle piccole luci dell’alba: ci ha reso creature dei crepuscoli ed eroici testimoni delle ore calde delle calde nostre stagioni giovanili. Farfaricchio, ch’i pedi pilusi! Grazie, donne senza nome di quel tempo di favola, pieno di mistero, di speranza e di forza.

  3. Pasquale Scarpati

    29 Agosto 2024 at 08:40

    Caro cumpa’ Sandro,
    ‘strusciando’ nel sito mi sono imbattuto nel tuo divertentissimo articolo. Di qualche simile “animale” avevo già sentito dire. Sono curioso di sapere… Ma sono (anche) metafore? Io così l’intendo e tu sai che a me piace molto “far partire l’immaginazione” e ridere (a denti stretti, come si diceva una volta) [ anche se qualcuno/a non è stato/a mai d’accordo. Forse perché son quelle cose che, a mio avviso, colpiscono di più].
    Mi sovviene: tra i tanti film di Totò, ad esempio “Totòtruffa” è quello che mi fa più divertire perché rispecchia anche se in modo iperbolico, la realtà del tempo in cui si viveva anche di espedienti (che guarda caso ancora oggi si escogitano, come quello dello zio riccone defunto all’estero).

    Ho letto anche la tua epicrisi e sono andato a vedere il nuovo sito che sembra agguerrito, senza tanti sottintesi. Insomma leggo ma non scrivo impelagato in tante cose. Troverò il tempo, almeno lo spero.
    Intanto un caro abbraccio da Pasqualino il compare

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