di Silverio Guarino
Isola di Ponza, fine anni ’60.
L’importante era essere giovani, con gambe poco pelose, piedi senza calli e avere tempo a disposizione per pigiare l’uva ’nd’i palemiént (grandi vasche che, nelle cantine, ospitavano l’uva da pigiare) al tempo della vendemmia.
Io e Carlo (Carletto) Sandolo, figlio dell’avvocato Luigi Sandolo e mio coetaneo, rappresentavamo una coppia valida su cui contare in caso di necessità per pigiare con i piedi nudi l’uva in tempo di vendemmia e preparare il mosto e il vino.
E così, dopo aver fatto un triplo “stage” da Elena Sandolo e da zia Santella Sandolo ’ncopp’ a chiesa a Le Forna e da Nannina Mazzella (cugina di mia madre e mamma di Federico-Lino Sandolo) alla Cavatella sempre a Le Forna, ci sentivamo pronti anche per i palemiént’ delle cantine di Ponza.
Dei miei parenti, a Ponza.
E così, ci avventurammo a vendemmiare sugli Scotti da zia Titina e zia Antonietta Curcio, dove addirittura ci cimentammo, forti dell’esperienza fornese, nella preparazione dello “spumante” (fermentazione in bottiglia!) e nella elaborazione di vini rossi (o rosati) utilizzando le bucce dell’uva nera, che venivano bollite per rilasciare il “colore” al mosto e al vino.
Il risultato fu dignitosamente buono e le zie si rallegrarono non poco delle prestazioni di quei due studentelli in vacanza.
Ma c’era un altro esame in agguato: la vendemmia da mio zio Aniello Conte, che aveva il “giardino” e la cantina proprio in via Pisacane, dietro la attuale pasticceria “napoletana”.
Non c’era molta uva, ma qui l’operazione era più articolata, in quanto bisognava dapprima raccogliere l’uva e poi pigiarla, una volta messa ’nd’u palemiént’.
A tagliare i grappoli e a metterli nei cesti, si applicava anche mio cugino Placido Senes, marito di mia cugina maestra Giovanna Conte, che, con l’impeccabile “aplomb” che gli derivava dall’essere un Nobil Homme – N.H. di origine sarda, si accingeva all’opera.
Il suo contributo, forse proprio in virtù del casato di provenienza, venne presto meno per la rapida comparsa sulla mano destra (che usava per tagliare i grappoli) di una mostruosa “papula” che si trasformò in una altrettanto poco nobile “vescicola”. Cosa che indusse a più miti consigli il cugino sardo.
Anche Carletto ed io ci decorammo di gonfiori e vesciche, decisamente più plebee, che non ci impedirono però di completare l’opera.
L’uva fu raccolta ’nd’u palemiént’ e noi due provvedemmo a pigiarla.
La piccola vendemmia del giardino di zio Aniello andò a buon fine, con gioia e soddisfazione di tutti. Di zio Aniello, in particolare, che, ritornato in patria dagli Stati Uniti dove era emigrato da giovane, desiderava tanto assaggiare un po’ di vino “home made”.
