Raccolgo il disappunto di Sandro Vitiello nel suo ultimo commento – “Avevo provato a scrivere qualcosa che parlava di navi e di oblio, di viaggi e di naufragi. Leggo commenti che parlano di Renzi, dell’antipolitica e del futuro dell’Italia. Boh..!” – e provo a proporre un’ulteriore sfaccettatura del tema trattato.
Lo spunto viene da un articolo molto bello di Francesco Merlo – da Repubblica di lunedì 28 luglio – che riprendo non per dire qualcosa di nuovo, ma solo per aprire la sequenza di scatole, una dentro l’altra, ciascuna con il suo tesoro nascosto all’interno, che l’articolista propone: stimoli destinati ad ulteriori approfondimenti, come ha spesso il potere di fare la buona scrittura…
Riporto integralmente l’articolo citato:
La vergogna rottamata
di Francesco Merlo
Non si era mai vista una vergogna trasformata in fierezza nazionale. La carcassa del Comando Marinaro Italiano è stata esibita come una bandiera. E il colore della ruggine e i residui d’olio esausto erano spacciati per polvere di stelle.
Nel bel mezzogiorno genovese di ieri (l’articolo è del 28 luglio u.s. – NdR) l’Italia si è inchinata — il contrappasso dell’inchino! — dinanzi alla rovina della sua secolare Storia Navale. Lo smantellamento della carcassa, che da sempre è la forma di sopravvivenza degli accattoni di tutto il mondo, frutterà infatti al consorzio Saipem e San Giorgio del Porto 100 milioni di euro, 2 mila lavoratori per 22 mesi di divoramento: soldi, soldi, soldi, i maledetti soldi della disgrazia; le estreme, illusorie fortune della sventura.
Ecco perché non sembrava, quella del presidente del consiglio Matteo Renzi sul molo di Genova, la visita allo scheletro di una nazione, ma aveva invece il tono della passeggiata allegra, dell’autopromozione: l’industria, la scuola, l’ingegneria italiana… E sempre dicendo di non voler fare passerella, Renzi finiva col farla. E va bene che queste sono le comprensibili leggi della politica-spettacolo, ma qui la rottamazione non è più metafora. Sempre premettendo che «non è un giorno lieto e nessuno mette le bandiere per festeggiare», l’evidente gioia di Renzi era fuori luogo, e le pacche sulle spalle, gli abbracci, i sorrisoni e gli scherzi, «ragazzi, siete peggio che in Parlamento», erano quelli delle Grandi Opere, ma da costruire e non da demolire; delle Industrie che nascono e non di quelle che muoiono, dell’inizio e non della fine (anche) di una retorica.
E mentre il ministro Galletti patriotticamente diceva che «i francesi dovrebbero imparare a fidarsi un po’ di più di noi italiani» e Franco Gabrielli finalmente esultava, «basta scaramanzia, la missione è compiuta», lento si riproduceva nell’aria di questa estate, che ha il passo leggero della tramontana, la malinconica “musica ambient” dell’arcitalianissimo dialogo tra i comandati Gregorio De Falco e Francesco Schettino, che furono chitarra e voce nella notte senza fine. E quel «torni a bordo cazzo», ormai più identitario di Fratelli d’Italia, del Va pensiero e di Volare, riemergeva invincibile dal naufragio dei cronisti televisivi: «ci siamo quasi, ci siamo quasi… la Costa Concordia abbraccia le colline della Lanterna ».
Era davvero imbarazzante l’interminabile vaniloquio di circostanza che di solito la Rai e le nostre Tv riservano alle incoronazioni e alle elezioni dei capo di Stato: «I delfini stanno accompagnando la nave sino al porto. Tutti stanno seguendo l’epopea della Costa. È un’immagine magnifica e terrificante insieme».
Diciamo la verità: non c’è italiano per bene che ieri non abbia sofferto nel vedere che nel porto della superba Genova lo stupido fallimento di un popolo di navigatori veniva esibito come un moderno Rinascimento.
Mai eravamo arrivati a celebrare come vita nuova la mummia della gloriosa Industria Italiana delle grandi navi, autoaffondata in una pozza a pochi metri dalla riva dell’Isola del Giglio ed ora imbavagliata e tenuta in equilibrio da cassoni-stampelle e incatenata, come una bestia in cattività, a dei cavi guinzaglio. Magari si potessero cancellare i 32 morti, e davvero smaltire la vergogna, cannibalizzarla e risputarla sotto forma di orgoglio nazionale.
Dunque dispiace dirlo, ma il capo della protezione civile, le autorità portuali, sindaci, governatori e ministri, sino appunto al presidente del consiglio, al di là delle buone intenzioni, annunziando lo smantellamento della vergogna come nuova risorsa nazionale ed elevando l’antica voracità dei ferrivecchi a via di sviluppo di un paese in decadenza, somigliavano alla famiglia Ciraulo, affamati divoratori di navi dismesse che nel porto di Palermo agli ordini di Toni Servillo nel ruolo di papà Nicola (Lsu, ovviamente: Lavoratore socialmente utile), arraffavano un manometro, si contendevano un timone, smontavano un boccaporto e si portavano a casa la “biscaggina”, la scaletta che Schettino non risalì mai.
Ed è facile immaginare fisicamente queste mosche del rottame anche senza avere visto il bel film di Daniele Ciprì (“È stato il figlio”).
Sono infatti i nipotini degli smantellatori raccontati da Lewis in “Napoli 44”, gli stessi accattoni che a Genova ieri hanno affittato terrazzini e balconi, “solo a telecamere” stava scritto a pennarello blu su carta a quadretti come nei menù estivi improvvisati dei bagnini abusivi.
Davvero un topos dell’economia dello smaltimento di cui vivono, in tutto il mondo, i parassiti del residuo, i divoratori di carcami dell’India più povera che incredibilmente sembrano ispirare le foto del balletto dei nostri tecnici attorno al cimitero della Costa: “operai di salvataggio” li chiamano, e alcuni sono olandesi, ma è italiano quel macho che si è fatto fotografare mentre piega sul proprio super bicipite un modellino della Concordia. Internet è piena di foto di questi salvatori che stappano birra Moretti e si spruzzano l’un l’altro, festeggiano, saltano, si abbracciano e si fanno i selfie.
E augurandosi che Genova diventi il porto della demolizione d’Europa il presidente della Regione Burlando sembrava non sapere che il capitalismo internazionale ha espulso dalle sue attività civili la distruzione di questi cadaveri ferrosi perché troppo costosa e pericolosa. E oggi la trasformazione e lo smaltimento di più di 700 navi all’anno avvengono nel Terzo Mondo e “a mani nude” in Pakistan, Bangladesh e soprattutto in India, nello stato di Gujarat, su una spiaggia che una volta era incontaminata e che si chiama Alang dove 40mila operai ridotti alla fame per due dollari l’ora si arrampicano e smembrano quelle “città fantasma” con i ventri squarciati, e sono tagliatori, maneggiatori di fiamma ossidrica, arrampicatori, un folla visiva che, ha raccontato William Langewiesche (“Terrore dal mare”, Adelphi 2005) solo a poco a poco prende senso, tra cavi infiammabili, pareti sottili… e le preziosissime campane di bordo riciclate nei templi indù.
Ed è tutto un cigolare, uno scricchiolare, uno sbattere di acciaio sul legno che, anche ieri sul molo di Genova, era già rumore di fondo, la musica del nostro declino, della nave che, divorata, via via sparisce.
[La Concordia, l’Italia e il mondo (1) – Continua]