foto di Biagio Vitiello;
testo e citazioni a cura della Redazione
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Domenica mattina. Festa finita. Le bancarelle di S. Silverio hanno smobilitato e gli spazzini sono al lavoro sul piazzale delle banchine che le avevano ospitate.
Stanno rimuovendo anche, a tempo di record, le luminarie per il Santo e i festoni di bandiere e mortella che le univano.
Approfittiamo dell’invio, da parte di Biagio Vitiello, di una serie di fotografie dei fuochi d’artificio della sera del 20, per rinnovare ancora per un po’ il ricordo della Festa… Uno spettacolo “Ligths & Sounds” – Luci e Suoni” che inizia con l’accensione di una serie di fiaccole rosse al bordo dell’acqua, alla punta della scogliera, e su musiche che riuscivano ad arrivare molto lontano, riprese da opere dei Queen (come We are the Champions e Bohemian rhapsody) e dal musical “Evita”…
Forse nessun evento come i fuochi d’artificio – al pari di straordinari fenomeni atmosferici, i lampi, gli arcobaleni – presentano quella natura così improvvisa ed evanescente che sembra essere refrattaria ad ogni tentativo di fissarla. Si fanno dei tentativi di trasmettere l’impressione per via visiva – ci sono dei video e foto eseguite con tecniche diverse – ma la scrittura ha le sue difficoltà a raccontare le immagini senza sostanza che vivono in un lampo e poi svaniscono…
Prova a farlo Daniele Del Giudice, uno scrittore italiano contemporaneo, in un suo scritto da “Atlante occidentale” (Ed. Einaudi; 1985).
l. R.
Nella scena (parzialmente riportata), due amici, Brahe e Epstein, si trovano a guardare insieme i fuochi seduti in un giardino che affaccia su un lago…
«Ci furono due botti secchi, senza luce, e i fuochi sono cominciati».
«Linee traccianti esplodevano in alto con un boato perforante, si divaricavano in un punto dove la materia diventava luce, probabilmente il sodio luce gialla, il bario luce verde, il rame luce azzurra, il magnesio luce bianca, lo stronzio luce rossa, e il calomelano… Lei conosce il calomelano? …»
Brahe fece cenno che no, ma che non importava.
«…il calomelano luce celeste. Linee di luce si diramavano concentriche e riscendevano giù, smorzandosi, nei piccoli fuochi d’apertura, non troppo intensi, per catturare l’occhio senza offenderlo e disporlo a una gradualità. Subito dopo, senza che loro due avessero il tempo di voltarsi e di fare apprezzamenti, altre salve portarono in quota raggiere di lance bianche da cui nascevano raggiere di lance azzurre da cui nascevano raggiere di lance verdi, luci rapidissime e fulminanti, alle quali probabilmente i nitrati e i dorati, veri magazzini di ossigeno, davano velocità di combustione, e così l’aria si trasformava in luce…»
Epstein parla con una misura costante di respiro, senza un tono particolare né accelerazioni, ma con piccole pause tra agglomerati di parole:
«… E fuochi, poi, più lenti e duraturi, ritardati dal carbone di salici e di pioppi che i pirotecnici tagliano apposta in primavera, quando il flusso della linfa scioglie i sali minerali, o ritardati dall’aggiunta di gomma arabica sgorgata dalle acacie, e in questo modo gli alberi si trasformavano in luce, giustificando almeno in parte la forma a fiore dei fuochi successivi, fiori luminosi con lunghi stami rossi proiettati in cime ombrelliformi come gli eucalipti, fiori con petali raggiati deflagranti in una corona di appendici a stella, dal blu al porporino al bianco come la passiflora, fiori dal calice allungato che scoppiava in una corona doppia e tripla di sfumature viola, come la granadilla, fiori con un grosso piumino di stami rabbuffati al centro della corolla giallo oro come l’iperico, fiori che esplodevano in terminali oblunghi lasciando fuoriuscire petali filiformi bianchi e rossi e rosa e violacei come il papavero da oppio, fiori scagliati nel cielo in dense pannocchie luminose viola, formate a loro volta da infinite efflorescenze come la buddleia, e fiori a due colori soltanto, semplici, dove un androceo di massima potenza si divaricava all’indietro di fronte a un gineceo aspettando il momento, e fiori che allo zenit delle loro traiettorie ricadevano in calici lunghi, tubulosi, eh sì, non potrei che dire tubulosi, viola come le fucsie, si spegnevano e chiudevano quella parte dei fuochi…»
(…) «… Poi cominciò l’ultima parte dei fuochi, con una salva di granate che scoppiarono a una quota più alta, con più profondità di dimensioni, più molteplicità di dimensioni, più intense di luce, più sonore nel botto; granate a serpentelli che tracciavano nel buio ellissi luminose, e del resto in geometria anche l’ellisse ha i suoi fuochi, granate raggianti che esplodendo striavano il cielo di linee parallele convergenti o divergenti a partire dalla concentrazione di un fuoco, granate a pioggia con un’infinità di punti luminosi ciascuno secondo la propria traiettoria, granate a paracadute le cui particelle luminose decadevano in parabole lente e sparivano, granate a girandolette deflagranti in vortici luminosi e curve e spirali perfettamente simmetriche nello spazio, pura forma, e interi lembi di spazio e di buio che si inarcavano in enfiature di luce o si piegavano in voragini oscure, secondo altre geometrie più complesse, comprendenti nella simmetria anche il tempo, fino alla perfezione circolare delle granate a sfera che cominciarono a esplodere in successione, enormi globi di stelle gialle che generavano enormi globi di stelle verdi che generavano enormi globi di stelle violette, o stelline rosse come il rosso verso cui nello spettro si sposta la luce delle galassie in allontanamento, probabilmente infinito, se l’universo è aperto, o globi di stelline azzurre come l’azzurro verso cui nello spettro si sposterà la luce delle galassie, se l’universo sarà chiuso e quelle rimbalzando contro il bordo estremo torneranno indietro; e ogni globo prima ancora di spegnersi ne originava un altro per via delle micce che nel cartoccio raccordavano le diverse granate come un cordone ombelicale, ogni globo si proiettava velocissimo in avanti e in giù e poi frenava di colpo, totalmente avvolgente, come se volesse risucchiare la città e il lago e le barche e il pontone e la chiatta dove in un riverbero acido si vedevano gli omini dei fuochi correre ai comandi, e perfino i due nel giardino, un po’ protesi nelle poltrone, e col viso all’insù…»
«… Gli ultimi fuochi, poi, furono così incalzanti che in pratica non c’era mai un intervallo di buio, ma solo un’infinitesima porzione di secondo in cui le sfere puntiformi spegnendosi restavano nei loro occhi, e gli occhi le riproducevano istantaneamente, nei colori complementari, in verde se erano state rosse, in arancione se erano state blu, in giallo se erano state porpora, dato che l’occhio è custode e garante dello spettro. Lo sapevano anche gli uomini dei fuochi d’artificio, e alternavano i colori a un ritmo sempre più infernale ma in modo da sfruttare anche i colori che l’occhio secerne come una ghiandola sollecitata; alternavano il rosso al giallo e il blu al porpora, colori che esplodevano con dentro soltanto colore, colore senza più dentro né fuori, colore fuori e colore dentro, forse perché l’essenza è sempre volatile, come la canfora che in polvere rende più brillanti i fuochi artificiali e in quadratini completamente esalati la si ritrova negli armadi alla fine dell’estate, colori sempre più luminosi, fuochi sempre più alti, botti sempre più forti, blu e porpora e arancione e verde e anche il bianco, che non lo si pensa mai come un colore ma soltanto come luce, e luce e luce e luce e luce-buio».
[Daniele Del Giudice, da: “Atlante Occidentale” – 1985; Einaudi ed.]