di Silverio Tomeo
Tra tentazione e tentativo, nella finestra tra il 1991 e il 1993, senza troppo prendermi sul serio, valutai di fermarmi a vivere sull’isola, nella casa di famiglia sul Pizzicato. Una volta entrato precocemente in pensione dalla scuola, volevo provare un nuovo inizio, magari sull’isola natia, dove già a due mesi ero stato portato via. Nel vivo di un mio travagliato passaggio esistenziale avevo provato a stare su a Milano per cinque anni, e cinque estati di seguito le avevo infilate sull’isola. Ero in età per provare la vita sana, l’aria fine, magari la cura della campagna, riprendere le mie letture e cercare il sorriso di una ragazza. Proprio sull’isola lessi “La democrazia e i suoi critici”, 582 pagine di Robert A. Dahl, uno di maggiori scienziati americani della politica, riprendendo così i miei studi da nuovi versanti. Avrei avuto Roma come punto di riferimento, per qualche amicizia, per seguire qualche evento, per frequentare qualche bella libreria Feltrinelli ben fornita. Con la città salentina di adozione avrei salvato solo i rapporti necessitati: i miei vecchi, le amicizie di una vita, ma nessun obbligo vero. E invece, macchè! A quarant’anni è troppo tardi per abituarsi alla vita isolata e isolana, ed è troppo presto per chiudersi nell’orizzonte marino, a immalinconirsi guardando Zannone come un fortino minaccioso che ti imprigiona a vita, sei irritabile e non riesci a entrare in sintonia con il chiacchiericcio del villaggio, sei in difficoltà persino con il dialetto-madre di cui ti senti ormai spossessato. Sottovalutavo la necessità del nostos, cioè del ritorno, ma non sull’isola-Itaca, piuttosto nel Salento e nella Puglia degli anni verdi. Da qui avrei potuto meglio intercettare le vicende dei movimenti collettivi, i transiti, le suggestioni culturali, le nuove relazioni. Per cinque estati di seguito, questa volta sulla tratta Milano-Ponza, tornai per ritrovare energie sorgive, osservando l’andazzo nell’isola. Intravidi l’ultimo sindaco democristiano deambulare impettito per le vie, avvertii i nuovi fermenti e le speranze della stagione di Mani Pulite che intanto seguivo dalla situazione privilegiata di Milano. Nacque il giornale “Il dibattito”, a cui affidai un breve intervento che riassumeva le mie letture riflessive, legate anche ai momenti seminariali milanesi a cui partecipavo.
La gioventù dell’isola la osservavo da vicino e perlopiù ci vedevo generosità, allegria, schiettezza, senso dell’amicizia, del resto non me ne sentivo distante neppure troppo per età, allora. Nello stesso tempo vedevo l’uniformarsi dei comportamenti di alcune comitive ai serials televisivi, per intenderci quelli alla Beverly Hills 90210, e la voragine chiassosa della discoteca estiva del Covo di Nord-Est che attirava anche la gioventù locale, l’eterna attrazione dei ragazzi isolani per le turiste, un uso normalmente diffuso di varie sostanze psicotrope, spesso un menefreghismo notevole per cultura, politica, attivismo sociale. Vedevo una differenza non tanto e non solo di classe, né più ideologica, ma di atteggiamenti mentali rispetto al potere, alla razionalità dominante, e anche al rapporto con la bella gioventù dei centri sociali che pure è presente d’estate. La piccola libreria giù alla scalinata tra il corso Pisacane e la banchina, gestita dalla signora sorridente e gentile, ma poco fornita e con un reparto di usato solo per i romanzetti rosa della collana Harmony. Qualche libro si trovava pure in edicola. D’estate non montò più il bel chiosco di libri tascabili, credo per crisi di lettori. Tutti brutti segni. Ricordo quando ragazzetto, dopo le scorrerie a S. Biagio dei librai a Napoli, nel recarmi a Formia per l’imbarco davo un’ultima occhiata a una cartoleria che aveva la collana economica grigia della Biblioteca Moderna Mondadori. O successivamente, quando mi portavo appresso qualche testo riflessivo per sbrigarlo in tutta calma nel tempo lento delle vacanze familiari.
Mi trovai a vedere tracce della diaspora della vecchia sinistra isolana, soprattutto del PCI. I socialisti devoti al craxismo li vidi attaccare i manifestini per la venuta di Bettino Craxi, c’era la commemorazione di Pietro Nenni, uno dei confinati di rango che fecero la “villeggiatura” sull’isola nei tempi bui. Era il 18 settembre del 1991. Partivo via Terracina il giorno dell’attesa del potente politico di governo, potente solo per pochi mesi ancora: il 17 febbraio iniziò la stagione per lui catastrofica di Mani Pulite e della crisi della Repubblica. Ero portato all’ottimismo, pensavo alle possibilità che si aprivano dopo la fine della guerra fredda, della DC e di quel sistema di potere, che le forze progressiste avessero più chances per misurarsi sul governo del Paese. Poi si è vista tutta la difficoltà della transizione italiana, e l’affiorare di un populismo autoritario, volgare, affarista, che ha segnato il declino nazionale, con una crisi dello spirito civico e dell’etica pubblica che è storia ancora di oggi.
Ricordo ancora di quel ragazzo, di Roberto, che abitava in una roulotte abbandonata sulla via dell’acquedotto, poi giù al riparo di qualche barca tirata in spiaggia. Un ragazzo bello e giovane, che parlottava da solo, andava dimesso, mangiava a volte solo pane e acqua. Non era per niente aggressivo, solo qualche battibecco incomprensibile, la stranezza a volte di denudarsi, o di fare la mossa di prendere un sasso. Aveva subìto trattamenti psichiatrici, era senza genitori, abbandonato alla sua malasorte e all’impedimento per una vita meglio organizzata e meno solitaria. Era quasi un simbolo della difficoltà e del male di vivere. Lo vedevo trattato in genere con comprensione e apprensione, nel suo disagio esistenziale e psichico.
Nella comunità isolana, nel passato remoto, c’era chi si abbandonava spesso al dileggio dei cosiddetti “scemi del villaggio”: in realtà figure costruite e stigmatizzate che diventavano poi assai funzionali per i benpensanti e la loro presunta normalità. Ricordo i due più noti: “Gennarino u’ matto” e “Silverio u’ matto”, quest’ultimo ce l’ho ancora presente, sfaccendato, colloquiante, ridanciano, girovago per le quattro vie dell’isola. La costruzione di molti personaggi, con relativi soprannomi, è certamente tipico di tutte le piccole comunità, e nel Meridione forse ancora di più. Alcuni soprannomi a Ponza sono spesso esilaranti e intraducibili.
La dimensione isolana era claustrofobica per me, e la dinamica troppo chiusa favorisce spesso gli equivoci. Mi venne naturale, dopo le cinque estati, di tagliare via gli ormeggi, senza neppure averlo mai deciso, misurando così tutta l’impossibilità di vivere sull’isola. Per tanti di noi è destino avere più partenze che ritorni.
Silverio Tomeo