di Gino Usai
Ninotto era ancora in licenza a Ponza e per non fare ritorno sotto le armi decise di procurarsi un infortunio che lo invalidasse per un po’ di tempo. Così un giorno, dopo aver architettato un piano con la complicità di suo fratello Silverio e della di lui fidanzata Eleonora, Ninotto chiese alla madre di preparare un po’ di the, di quello sfuso che lui di tanto in tanto si procurava al mercato nero. Si trattava di un espediente per avere a disposizione i carboni accesi. Dopo aver sorseggiato il the Ninotto si recò dalla vicina di casa e la pregò: “Rosina, mamma è abbattuta, triste, ora te la mando per distrarla un pò, anzi, è meglio se la chiami tu”. Era un modo per tenerla lontano da casa per un po’
Rosina non si fece pregare e chiamò Maria. Intanto Ninotto afferrato il coltellaccio per tagliuzzare il lardo lo mise ad arroventare sui carboni. Poi si mise bocconi sul letto, tirò su i calzoni, infilò la testa sotto il cuscino e mentre Eleonora gli teneva fermi i piedi, Silverio gli passò a più riprese il ferro arroventato sul polpaccio. Ninotto soffocava il dolore mordendo il cuscino. La piaga prodotta era vasta e la fasciarono con una benda, senza disinfettarla. Quando la madre tornò vide che si lamentava e gli chiese spiegazioni. Rispose che non era nulla.
Ninotto era fidanzato con una ragazza di Le Forna e quando la futura suocera seppe del temerario gesto lo rimproverò: “Stupido… bastava mettere il “fuoco morto”. A Ponza cresce spontanea una pianta rampicante chiamata fuoco morto, a giugno produce un fiore bianco le cui foglie sono orticanti. Queste foglie pestate in un mortaio producono un cataplasma che se applicato sulla pelle procura ustioni simili alle scottature, senza dare peraltro molto dolore. La futura suocera preparò la mistura e l’applicò sul polpaccio di Ninotto, rendendo ancora più ampia la piaga.
Terminata la licenza Ninotto si presentò in capitaneria zoppicando. Al capitano disse: “Devo rientrare in caserma, ma come faccio con questa ferita al piede che mi tormenta. Sono rimasto ferito sotto i bombardamenti, una scheggia mi ha colpito al polpaccio. Lì per lì non ho avvertito nulla, ma adesso sono in condizioni pietose. Volete vedere la ferita?” e fece il gesto di tirarsi su i calzoni e sfasciare la benda. La moglie del capitano, in quel momento presente, essendo una donna impressionabile disse: “No, no… non c’è bisogno!”
Così con un certificato medico riuscì ad allungare la licenza.
Intanto a Ponza giorno dopo giorno giungevano come potevano, da ogni dove, altri militari sbandati, i quali, dopo aver rubato una barca sul litorale con grande fatica raggiungevano Ponza. Una volta giunti nell’isola andavano in capitaneria a registrare la loro presenza e a riconsegnare la barchetta che veniva custodita dietro la caletta. Ne approfittò Silverio per fingersi – d’accordo con alcuni compagni – appena rientrato con un barchino. Così la sua posizione venne regolarizzata e uscì dalla clandestinità.
Maria Mazzella, come tutti i ponzesi, aveva la tessera annonaria per acquistare i viveri all’ammasso. Sovente incaricava di farle la spesa il piccolo Salvatore Conte, vicino di casa. Un giorno il ragazzo perse la tessera e Maria rimase senza viveri.
Silverio e Ninotto si recarono all’Ufficio Annonario del Comune per ottenere l’assegnazione di una nuova tessera per la madre. Quella mattina la fila agli uffici arrivava fin giù le scale del Palazzo Municipale. Quando fu il loro turno i fratelli si presentarono dall’impiegato addetto, il quale, dopo aver ascoltato la richiesta, rispose che avrebbero dovuto rivolgersi al Segretario Comunale. Andarono nell’ufficio del Segretario. Entrò solo Ninotto: “Aspetta qui – disse a Silverio – vado io a parlare: tu sei troppo irruente.”
Silverio restò fuori ad aspettare nervoso e impaziente. Sull’uscio c’era una guardia di PS la quale sentendo che dentro l’ufficio Ninotto discuteva animatamente, ignorando che Silverio fosse suo fratello, gli disse con fare minaccioso: “Se quello lì dentro sapesse chi è che sta qui fuori, non farebbe tante questioni.”
Silverio, già teso e impaziente, scattò: “E se tu sapessi che io sono il fratello di quello che sta dentro, non avresti detto queste parole!”
Finalmente Ninotto uscì. Il Segretario non volle rilasciare la tessera e rinviò la questione al Sindaco, che in quel momento era assente.
I fratelli Picicco per ottenere giustizia si recarono dai carabinieri, ma anche loro gli dissero di rivolgersi al Comune. Allora ritornarono al Municipio e nella piazzetta di Punta Bianca videro il Sindaco Peppe Di Monaco, in compagnia della guardia municipale Alberto Finelli, che andava al Comune. Nella piazzetta c’era a quel tempo la bottega di ferramenta di mastro Paolo (Mastuppaulo), il quale era seduto lì fuori con un bastone in mano e rivolto ai Picicco disse: “Buttateli giù a quei fetenti, io poi quaggiù col bastone li finisco di sistemare!”.
Scavalcando la fila nelle scale persisteva e i Picicco raggiunsero il piano superiore. Si rivolsero all’usciere, un certo Biagio di Sopra Giancos, il quale si recò nell’ufficio del Sindaco e annunciò: “Sig. Sindaco, ci sono i fratelli Picicco che vi vogliono parlare,”.
“Vabbene, poi li chiamo io”rispose il sindaco un po’ scocciato.
I fratelli restarono in attesa della chiamata, impazienti. A un certo punto Silverio disse a Ninotto: “Stavolta fai andare a me, che tu non sei capace di farti dare la tessera; se vado io subito me la danno!”.
Ninotto rispose: “Lascia fare a me, tu sei troppo nervoso!”
Silverio replicò: “Vabbè, vai tu, ma se torni senza tessera meno a te, me la prendo con te!”
Ninotto riuscì ad ottenere dal Sindaco una nota da presentare all’incaricato Elio Zecca con la quale gli avrebbe rifatto la tessera annonaria. Aveva ringraziato il Sindaco e stava per uscire dalla stanza quando dalla sua scrivania, posta accanto all’uscio, il Segretario Comunale l’apostrofò: “Schifoso comunista!”. Ninotto si fermò di colpo, sdegnato, e per tutta risposta gli sputò in faccia. Ci fu il parapiglia. Il Sindaco afferrò Ninotto da dietro per immobilizzarlo, lui si dimenò e poi urlò: “Fratie’, curri!”. Silverio irruppe nell’ufficio e s’avventò sul Segretario, mentre il Sindaco cercava di separarli e di spintonarli fuori.
Il Segretario ebbe in tempo di afferrare dalla scrivania un portapenne e di lanciarlo contro i Picicco, ma colpì la testa del Sindaco. Vennero chiamati i carabinieri che fermarono i due fratelli e li portarono in camera di sicurezza, in attesa che il dr. Silverio Martinelli stilasse il referto medico, necessario per avviare un eventuale procedimento penale. In camera di sicurezza, due carabinieri li sorvegliavano minacciosi, volpini in mano.
I carabinieri avvertirono Maria dell’accaduto e le dissero di portare da mangiare ai figli. Maria preparò un pentolino di fave bollite, ma Silverio e Ninotto la rimandarono a casa dicendole che il vitto erano tenuti a passarlo i carabinieri. Dopo quest’ulteriore protesta
ottennero due sfilatini, uno dei quali lo diedero alla madre. Vennero quindi trasferiti nel carcere ma rifiutarono di farsi mettere le manette. Intanto la notizia dell’accaduto si diffuse nell’isola e i comunisti si misero all’erta e con Adalgiso Coppa in testa si recarono a casa del Governatore di Ponza, Tito Zaniboni. I comunisti chiesero giustizia e la scarcerazione dei Picicco, minacciando sommosse. Zaniboni promise di lì ad un’ora la scarcerazione dei Picicco. E così fu. Il giorno dopo i due fratelli si presentarono nuovamente al Comune. L’usciere si precipitò ad aiutarli e gli promise la tessera in breve tempo. In attesa si fecero un giro per il porto; tutti li fermavano e solidarizzavano. Ritornati al municipio, Biagio gli consegnò ben tre tessere, una per ogni membro della famiglia. Giustizia era fatta!
(Continua)
Gino Usai