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Shoah è un termine ebraico che significa «tempesta devastante», e indica lo sterminio del popolo ebraico durante il secondo conflitto mondiale. Lo si preferisce alla parola Olocausto, termine di origine greca che significa «sacrificio tramite il fuoco», perché non è stato un sacrificio!
È una commemorazione internazionale che ricorda il giorno in cui, nel 1945, le truppe sovietiche arrivarono ad Auschwitz e scoprirono l’orrore del campo di concentramento con i pochi sopravvissuti.
«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati»
27 Gennaio – La Giornata della Memoria.
Annarosa Luzzatto ha acconsentito alla pubblicazione nel nostro Blog – ( sinistrasenile – NdR) – del V capitolo di una sua autobiografia data alle stampe una ventina di anni fa.
Tano Pirrone
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Per l’articolo precedente, leggi qui
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Posarono con aria decisa una tavola di legno sul fossato, l’attraversarono con due lunghi passi, ed uno di loro mi prese in braccio. L’uomo che mi teneva in braccio si avvicinò all’uomo della bicicletta che stava dal versante italiano della rete, si scambiarono qualche parola, poi i quattro con me riattraversarono la passerella, la levarono, ed uno di loro mi disse:
– “Adesso andiamo da tuo padre.”
Qui il mio ricordo si interrompe. Ricordo più tardi una casa di stile antico, con una famiglia gentile, credo un uomo e una donna, che mi parlavano. Mi avevano preparato un regalo, un orsacchiotto di peluche, che poi chiamai Baloo e dal quale non mi separai per tutta la mia infanzia. Lo ritrovai, vecchio e sciupato, in cantina a Milano molti anni dopo, quando ero già sposata, ed il suo muso aveva un’espressione così triste che non ebbi il coraggio di conservarlo, e lo buttai via.
In quella casa, mi sembra, aspettai molto a lungo. Ore direi, perché non ricordo di aver dormito. Alla fine arrivò mio padre.
E fin qui, il mio ricordo. Con mio padre ne parlai la prima volta quando avevo circa quarant’anni, e c’era del rimprovero nel mio racconto. La prima cosa che gli rimproverai fu che, come al solito, in quella casa in Svizzera, oltre il confine, lui era arrivato in ritardo, e mi aveva fatto aspettare.
La sua reazione fu quasi divertente. Disse che lui in realtà in quella casa non sarebbe nemmeno dovuto venire, dato che era in una zona a lui vietata perché troppo vicina al confine. C’era venuto soltanto perché i suoi amici lo avevano chiamato, dato che io mi ero rifiutata di dare ad alcuno il biglietto con un messaggio clandestino che tenevo in tasca, la tasca di un vestitino di lana tutto strappato per il passaggio attraverso la rete di confine.
– “Dunque – gli dissi io – la bambina così poco riconoscibile da sola era in realtà identificabilissima perché portatrice di un messaggio clandestino?”
– “No, non era così riconoscibile, te lo ha dato la zia all’ultimo momento. E poi pensa, alla tua età (tre anni) già capivi l’importanza di un messaggio segreto: ti avevano detto di darlo a me, e tu ti sei rifiutata di darlo ad altri!”
Era anche orgoglioso di me, mio padre.
Io non so cosa pensare. Forse quei signori hanno semplicemente seguito i rigidi dettami della lotta clandestina: deve consegnarlo solo a Lucio Luzzatto, che Lucio Luzzatto venga a prenderlo. Oppure hanno avuto la sensibilità umana di capire che non si strappa di tasca ad una bambina che ha appena passato il confine il biglietto che lei deve consegnare al padre, a costo di far correre qualche rischio (limitato, eravamo pur sempre in Svizzera) al suddetto padre.
Dalla parte di papà, non so. Lui certamente non ha mai capito cosa volesse dire essere bambino (esclusa la sua di infanzia, naturalmente). Per me probabilmente quel biglietto “da dare a mio padre” rappresentava l’unica garanzia che mio padre sarebbe davvero venuto da me, perché questo sì lo capisce anche una bambina di tre anni: per il padre lei contava poco, mentre il biglietto contava molto.
Per mia zia… so ancora meno. Papà disse che lei gli aveva disobbedito, che aveva superato una zona proibita per arrivare all’uomo con la bicicletta, mentre in realtà avrebbe dovuto lasciarmi prima, ad un altro intermediario, che a lei non era piaciuto. Aveva quindi avuto coraggio e sensibilità umana nei miei confronti. Pare strano che mi avesse affidato personalmente, dicendomelo (invece di nascondermelo addosso, per esempio), un biglietto clandestino. O anche lei ha considerato la bambina come fosse un’adulta, oppure al contrario ha intuito che affidarmi un compito estremamente difficile, che richiedesse grande coraggio e senso di responsabilità, avrebbe rafforzato la mia fiducia in me stessa e la fiducia che dall’altra parte mio padre mi aspettava davvero. Propendo per la seconda interpretazione. Penso di aver attraversato con tanta calma il confine tra sconosciuti perché mi sentivo davvero una piccola staffetta partigiana con un dovere da compiere. E per premio, ci sarebbe stato mio padre. Ma lui non aveva considerato importante essere davvero lì lui, per primo, ad aspettarmi e ad accogliermi. Il biglietto, però, aveva funzionato.
In ogni caso, l’idea che io possa aver traversato il confine sentendomi come una piccola staffetta che porta un messaggio fondamentale può giustificare l’atmosfera eroica che accompagna dentro di me questo ricordo, e che mi aiuta talvolta a superare i momenti difficili, perché “se ce l’ho fatta allora posso farcela anche adesso.”
Ma dimentico sempre il particolare che rese buffa la reazione di mio padre al racconto del mio passaggio del confine. A proposito di quando lo svizzero che mi teneva in braccio si avvicinò alla rete per scambiare poche parole con l’uomo della bicicletta, lui mi chiese:
– “Ma gli ha passato qualcosa, gli ha dato dei soldi? Perché doveva pagarlo”.
Io risposi che non ci avevo badato, e che in ogni caso non ricordavo. E il discorso finì lì.
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[Il confine, di Annarosa Luzzatto (2) – Fine]
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