di Sandro Romano
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Riferimento ai primi due commenti di Rosanna Conte : leggi qui e qui
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Premessa.
Innanzitutto devo necessariamente chiarire che avevo dato per scontato molti argomenti non per superficialità o malafede, ma solo per non appesantire troppo un discorso che, in buona parte, viene letto da “non addetti ai lavori”.
Invece, come giustamente ha fatto Rosanna, soprattutto per questa parte di storia, bisogna approfondire e puntualizzare.
Tuttavia, nel momento in cui approfondiamo l’analisi storica in modo scientifico, a generare i dubbi è la bibliografia, soprattutto scolastica (le università stanno invece a buon punto), che, non avendo uniformemente aggiornato la trattazione storica nei propri testi alla luce delle recenti rivisitazioni e scoperte, non solo d’archivio ma anche bibliografiche, crea delle imbarazzanti discrasie tra gli stessi testi scolastici.
A mio avviso è quest’ultima condizione alla base delle “obiezioni” di Rosanna che appaiono come delle vere e proprie “bacchettate” sferrate da parte di chi ha appreso ottimamente la lezione, ma da libri non imparziali o, comunque, non aggiornati e rimane perplessa rispetto a tutto quanto non corrisponde al suo sapere.
Una qualche contraddizione di Rosanna tra quanto scritto nel suo primo intervento ed il secondo, avvalora la mia ipotesi, provando la diversità del livello di aggiornamento delle varie fonti bibliografiche di riferimento, a maggior ragione se, poi, reperite qua e là su Internet.
L’Illuminismo.
Ho scritto: “In questo contesto prendevano forma le prime idee illuministe che venivano abbracciate soprattutto dai movimenti popolari più radicali”.
Rosanna ha osservato: “Le idee illuministe del ‘700 si diffondono nei salotti aristocratici e fra i borghesi, non erano certamente discusse dai “movimenti popolari più radicali”. Il popolo, allora, non sapeva né leggere né scrivere e, sottomesso alla religiosità della chiesa, non avrebbe mai pensato di abbattere la monarchia perchè non conosceva altra modalità di governo (…)”.
Innanzitutto va detto che, in genere, ogni pensiero politico, rivoluzionario o reazionario e conservatore che sia, ha comunque avuto sempre una gestazione in ambienti culturali ristretti e, quasi sempre, diversi da dove, poi, si è concretamente realizzato. Nello specifico, uno tra i più vistosi e travolgenti esempi degli effetti dell’Illuminismo è la Rivoluzione Francese.
Tale evento, anche se nella parte di massima maturazione ebbe un’accelerazione eccezionale, fu la realizzazione concreta di una concezione della società e della politica che arrivava da molto lontano (1).
L’Illuminismo ebbe origine in Inghilterra, ma si sviluppò principalmente in Francia; fu una corrente di pensiero, un grandioso e vasto movimento intellettuale che, come tutti gli altri nati tra la storia moderna e quella contemporanea, mosse i primi passi in circoli e “salotti”, ma immediatamente si propagò, soprattutto politicamente, là dove trovò terreno fertile e, cioè, tra i movimenti popolari più radicali nati parallelamente alla prima rivoluzione industriale.
Il diffusore delle idee illuministe fu una nuova figura di intellettuale, il “giornalista pubblicista”, votato alla divulgazione costante delle idee al suo pubblico. Pertanto la strada di propagazione delle idee illuministe fu semplice, immediata ed incontenibile.
Fatte proprie da una vasta platea – la famosa Opinione Pubblica costellata da vari movimenti di media e bassa cultura – le nuove idee “rivoluzionarie” finirono con l’influenzare fortemente le parti “scontente” della popolazione.
Nella Francia del 1789, “il Terzo stato raccoglieva indistintamente tutti i francesi che non erano né nobili né ecclesiastici (… ) soprattutto i contadini ed i braccianti rurali. Su una popolazione totale di 24-25 milioni, il terzo stato rappresentava in percentuale il 98% (…). Il Partito Nazionale (Terzo stato) fu l’espressione dell’opinione pubblica illuminista e liberale” (2).
È in questo contesto che si innesta la parte illuminista del Terzo stato, quel movimento popolare radicale che generò la Rivoluzione.
Esso rappresentava le frange economicamente più basse della società del tempo che, finalmente svincolate grazie all’uso della ragione dai secolari condizionamenti religiosi, intendevano liberarsi anche dai soffocanti vincoli politici degli assolutismi.
Le idee illuministe, dagli iniziali dibattiti filosofici e teorici dei salotti, erano scese nelle strade, in mezzo al popolo, che se ne era appropriato cogliendone l’essenza rivoluzionaria.
La Rivoluzione del 1789 affonda le sue radici ideologiche proprio in queste frange radicali del primo Illuminismo.
Quando Carlo di Borbone salì al trono di Napoli, circa 50 anni prima degli eventi rivoluzionari francesi, le correnti più radicali erano già nate (e di “moda”) e si propagavano a macchia di leopardo in tutta l’Europa.
Molti ne erano consapevoli ed anche preoccupati: non solo l’aristocrazia e le monarchie, ma la stessa nascente borghesia che ne temeva il dilagare quasi come un effetto collaterale indesiderato e, quindi, deteriore delle sue rivoluzioni liberali.
In effetti non ci voleva molto per capire a cosa prima o poi avrebbero portato quei movimenti. Più per questo timore che per vere e proprie idee “progressiste ed illuministe” che Carlo decise di fondare il suo Stato accattivandosi l’elemento futuro di maggior criticità, instabilità e potenza: il popolo.
Si era capito molto bene fin dai primi tempi che “l’uso spregiudicato della ragione” svincolato da qualsiasi condizionamento religioso e politico avrebbe avuto una sola meta: la rivoluzione.
Tanucci lo capì e lo fece capire a Carlo prima ed a Ferdinando dopo che i tempi stavano progressivamente cambiando e che occorreva togliere al popolo ogni elemento di rivolta.
La terra rappresentava l’innesco di ogni rivendicazione e, quindi, diventò il principale oggetto di interesse e cura dei Borbone.
A tale inedita conclusione arrivò per primo nel ’900 lo storico ed economista Francesco Saverio Nitti che scriveva: “I Borboni temevano le classi medie e le avversavano; ma tenevano anche ad assicurare la maggiore prosperità al popolo. Nella loro concezione, gretta e quasi patriarcale, non si contentavano se non di contentare il popolo, senza guardare all’avvenire, senza aver vedute prospettive. Bisognava leggere le istruzioni agli intendenti delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco per sentire che la monarchia cercava basarsi sull’amore delle classi popolari. Il re stesso scriveva agl’intendenti di ascoltare chiunque del popolo; li ammoniva di non fidarsi delle persone più potenti li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni delle popolazioni” (3).
Francesco Saverio Nitti (1868-1953)
Quanto afferma Nitti che, fra l’altro, fu anche primo ministro del Regno D’Italia di orientamento democratico (1919), è la sintesi del modo di governare antiliberale (…senza guardare all’avvenire, senza aver vedute prospettive) e, quindi, anticapitalista dei Borbone, il cui solo interesse era il popolo.
Poteri totalitari e totalitarismo.
Il termine ‘totalitarismo’ fu coniato negli anni ’20 del novecento (dagli antifascisti, ma fu poi ripreso anche dai fascisti in termini positivi) per identificare particolari forme di governo di quel tempo.
Oggi, però, questo termine viene normalmente usato nel linguaggio politico, storico e filosofico soprattutto per identificare, anche per momenti di storia diversi dal ’900, ogni forma di governo che ingerisce anche nella vita privata dei cittadini.
Restando al periodo da noi trattato, un esempio (ma ce ne sono almeno una dozzina) lo possiamo apprendere da un testo dell’Università La Sapienza di Roma dei proff. Renata Ago e Vittorio Vidotto (1), che a pag. 296 di Storia Moderna, scrivono: “Nella prassi politica, i giacobini di Robespierre giustificarono il loro potere ponendosi, al di là ed al di sopra dei meccanismi della rappresentanza, come interpreti del popolo – l’unica fonte di potere legittimo – e come espressione della volontà generale, inaugurando un modello di democrazia totalitaria che avrà importanti sviluppi nei due secoli successivi (la Comune di Parigi del 1871, la Rivoluzione bolscevica)”.
Quindi, se da alcune forme di governo del ’900 si arriva all’identificazione del totalitarismo, non si può, parlando di totalitarismo, intendere automaticamente solo tali governi del ’900, dato che il termine, a torto o a ragione, è ormai da tempo utilizzato quale sinonimo di autoritarismo, di dittatura o di tirannia al di là del periodo storico in cui si sono sviluppati tali poteri.
Cattolicesimo Sociale
Anche la puntualizzazione sul “cattolicesimo sociale” è, così come per la questione dell’Illuminismo e del totalitarismo, il frutto della confusione temporale e spaziale tra la genesi della dottrina (o del termine) e la sua applicazione (o utilizzo).
Nella mia relazione, parlando di cattolicesimo sociale, non intendevo riferirmi a quella ben definita azione politica e sociale che caratterizzò il periodo della Restaurazione, messa in atto da organizzazioni che prestarono la loro assistenza volontaria ai substrati sociali anche contro il voler del papato, ma di quella corrente filosofica che si ispirava ideologicamente alla parte sociale e politica del Vangelo di cui il primo a tracciare la dottrina, attraverso la sua “Utopia”, fu Thomas More nel 1516. Nella storia abbiamo numerosi casi di applicazione nel sociale del Vangelo già prima dell’Ottocento.
Un esempio tra i più riusciti è quello che realizzò il sacerdote Uldrich Zwingli che nel 1523, a Zurigo, enunciò 67 articoli di fede (Sessantasette tesi): una regolamentazione che non si limitava a porre ordine nella vita religiosa della comunità cristiana, ma che era indirizzata soprattutto a scandire la vita sociale e politica dell’intera città secondo il dettame evangelico.
Anche in questo caso si è di fronte ad un cattolicesimo sociale molto pronunciato che non si può, però, definire tale solo perché Zwingli apparteneva alla Chiesa Riformata. Ecco, i Borbone, al di fuori di fuori di posizioni ed imposizioni della Chiesa cattolica del tempo, applicarono alla lettera la parte sociale del Vangelo in una sorta di cristianesimo sociale che, per comodità di dialogo, vicinanza di confessione e chiari riferimenti a Thomas More, è stato chiamato “cattolicesimo sociale”.
(1) – Ago R. e Vidotto V., Storia Moderna, Editori Laterza, 2010; pag. 225 – 226
(2) – Ago R. e Vidotto V., Storia Moderna, Edizioni Laterza, 2010; pag. 282
(3) – F.S. Nitti, Nord e Sud, Calice Editore, Rionero in Vulture, 1983, pp. 21 – 22
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