Ambiente e Natura

Gallerie e tunnel

di Leonardo Lombardi

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Per gli scritti fondamentali di L. Lombardi sugli  “Impianti idrici romani”  cerca nell’indice per titolo o per Autore

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Mentre con Domenico Musco scrivevamo l’articolo su Chiaia di Luna e sul tunnel che collega la spiaggia al centro, mi è venuto in mente che, probabilmente, pochi sanno come facessero i Romani a costruire le gallerie. E non parlo del tunnel di Chiaia ma, soprattutto, delle lunghe gallerie di montagna che realizzavano per gli acquedotti e, come vedremo, per altri scopi.

Infatti, per le gallerie corte, che non dovevano superare grandi rilievi, come quella di Chiaia, prendevano un allineamento sul terreno, decidevano quale fosse il punto migliore per entrare e quello per uscire, stabilivano la pendenza e scavavano.

Per l’allineamento disponevano di due strumenti fondamentali la groma e la diottra. La prima era formata da un palo, che sosteneva un braccio snodato al quale erano collegati due assi in croce, ai quali erano appesi quattro fili a piombo.

Groma

Questo strumento serviva per gli allineamenti e si usava traguardando in due piccole fessure. Lungo la direzione prescelta ponevano dei picchetti fino a giungere al punto “termine” del tracciato previsto.
Poi, lungo il tracciato, realizzavano dei pozzi il cui fondo raggiungeva la futura galleria. In seguito, probabilmente, scavavano i tratti tra pozzo e pozzo con un primo cunicolo esplorativo che veniva in seguito allargato, fino alle dimensioni previste dal progetto.

In casi particolari usavano il secondo apparecchio, la diottra.

Diottra

Questa era costituita da un disco mobile sul quale erano segnati gli angoli e le direzioni dei punti di orientamento: nord, sud, ovest ed est. Traguardando si stabiliva la direzione e, anche in questo caso, i tecnici ponevano i necessari picchetti e i pozzi e, quindi, cominciaba il lavoro manuale per lo scavo.

La diottra, invenzione di Erone, scienziato greco che ci ha tramandato numerose invenzioni alessandrine, funzionava anche per misure in verticale, un vero teodolite antico.

Se le gallerie erano lunghe, e dovevano superare dei rilievi importanti, il lavoro preparatorio era molto più complesso. Tracciando il percorso con gli stessi strumenti risalivano il rilievo, dislivello dopo dislivello, ponendo periodicamente dei picchetti, fino alla cima del rilievo con costanti misure della quota. Poi scendevano dall’altro versante, senza mai perdere l’orientamento. Se i rilievi erano pronunciati era impossibile realizzare dei pozzi, sarebbero stati troppo profondi e dispendiosi, in lavoro e danaro.

Per le pendenze usavano una lunga livella, il corobate con il quale, tramite un canale riempito d’acqua, si potevano apprezzare differenze di livello a meno di un  millimetro, su tre metri di lunghezza.
Fili a piombo e piedi dello strumento regolabili permettevano una perfetta orizzontabilità del corobate. In ogni caso potevano sempre correggere la pendenza con modeste quantità d’acqua lasciata correre sul pavimento finito. Si rifletta alle pendenze medie degli acquedotti romani che erano di media dell’uno per mille.

Corobate

Nelle gallerie lunghe, e prive di pozzi, mantenere il giusto allineamento e la giusta pendenza era complicato. Pur lasciando una luce all’imbocco, senza un riferimento frontale, era impossibile mantenere la giusta linea ed era facile ritrovarsi dopo decine o centinaia di metri, in tutt’altra direzione rispetto al progetto. Lo stesso dicasi per la quota.

Per realizzare in perfetta direzione il cunicolo o la galleria, i Romani ponevano all’ingresso una sorgente luminosa che gli scavatori dovevano tenere d’occhio. L’inizio dello scavo era realizzato con una modesta curvatura alla quale, dopo pochi metri seguiva una curvatura nell’altro senso. Se  curvavano troppo e perdevano la vista della luce la recuperavano immediatamente, invertendo la curva. In tal modo realizzavano un percorso serpentiforme che procedeva fino all’uscita dall’altro lato del tunnel. Con tale metodo sono state scavate migliaia di gallerie per gli acquedotti costruiti in tutto l’impero.

Filo
E’ impossibile stabilire quante migliaia di chilometri di gallerie abbiano scavato i Romani. Basti pensare che degli 11 acquedotti che alimentavano Roma, su un totale di circa 500 chilometri, più dell’80% dei tracciati è in galleria.

Certo, anche i Romani a volte sbagliavano gli scavi, o dovevano modificare il tracciati in corso d’opera per improvvisi cambiamenti di durezza delle rocce da scavare.
A proposito di errori è famosa una iscrizione, rinvenuta a Lambese in Algeria, che ricorda come l’ingegnere Nonius Decius, nel  152 d. C., fu costretto ad intervenire perché gli esecutori di una importante galleria, per l’acquedotto di Salde, scavando dai due estremi del tunnel, non erano riusciti a far collimare i due rami e si trovarono non solo distanti ma anche con quote diverse. Nonius realizzò una galleria trasversale e collegò con successo i due rami già eseguiti.

Si potrebbero descrivere centinaia di gallerie, ma le più singolari sono, senza dubbio, i tunnel scolmatori dei laghi Albani.
Tutti gli specchi d’acqua dell’Italia centrale videro importanti interventi o per mitigare i danni di frequenti inondazioni o con il doppio scopo di conquistare piane alluvionale, utili all’agricoltura, o per utilizzare l’acqua derivata per irrigazione a valle dei laghi.
L’esempio dei due laghi più grandi dei Colli Albani, il lago di Nemi e di Albano, sono esempi paradigmatici della capacità tecnica  dei Romani.

Laghi di Nemi e di Albano (a sin. nella foto)

Laghi di Albano/Castelgandolfo (a sin) e di Nemi /Genzano (a dx nella foto)

Il lago di Albano, nato nel cratere dell’ultima eruzione del distretto vulcanico dei Colli Albani, aveva forti oscillazioni di livello, con alcune risalite fino all’orlo, con rischio di pericolose alluvioni. I Romani decisero di stabilizzarne il livello, con un condotto di troppo pieno, e di utilizzarne l’acqua per irrigare la non lontana Piana di Ariccia.
L’operazione non era facile. Stabilito il livello a cui portare il lago, eseguirono il canale, lungo 1490 metri fino all’uscita, lasciando dal lato del lago un lungo tratto non scavato. Terminato il condotto, con grandi difficoltà dovute alla durezza delle lave da attraversare, eseguirono un canale inclinato che aveva origine appena sotto la quota dell’acqua nel lago. Quindi abbassarono la soglia per far  defluire l’acqua nel condotto inclinato, e quindi anche nel tunnel. Poco alla volta abbassarono sempre di più la soglia fino a raggiungere il livello di progetto. Si trovarono così una parete di roccia verticale alta circa 30 m sul lago, che rivestirono in muratura e abbellirono con archi e altri ornamenti per ricordare l’opera a eterna memoria.

Ultima

Il Ninfeo dorico

Il ninfeo dorico, sulla riva settentrionale del lago

1 Comment

1 Comments

  1. silverio lamonica1

    11 Gennaio 2014 at 14:11

    Un esempio eloquente di “tracciato a serpentina” mi sembra di vederlo nel nostro tunnel di Chiaia di Luna, quando – circa a tre quarti del percorso dall’entrata, lato panoramica – si nota una vistosa curva che forma un angolo buio, nella roccia di riolite. Evidentemente, anche in quel caso, l’ingegnere di allora dovette rettificare il percorso, coi sistemi così ben descritti dal Dr Leonardo Lombardi.

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