di Tina Mazzella
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Ai Lettori di Ponza racconta
In occasione della ricorrenza dei Morti appena trascorsa, che tante suggestioni evoca, mi permetto di proporre un aneddoto riferitomi da mia madre e da me rielaborato, estratto dal mio libro inedito “Fuga e ritorno – Il diario di don Piero”.
Tina Mazzella
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Domenica, 2 novembre 1930. Questa mattina mi è capitata una disavventura da mozzafiato incredibilmente buffa che, in un solo istante, ha fatto vacillare la mia sicumera insieme a quella parvenza di dignità di cui spesso mi ammanto.
Rispettando un’antica consuetudine, mi stavo recando prima dell’alba al cimitero per celebrare la Messa mattutina in suffragio dei defunti.
La strada da percorrere da Santa Maria al Camposanto era lunga e completamente buia, attraversata dalle famose tre gallerie; di esse la prima appare particolarmente sinistra ed ancora più cupa di notte.
Il grido del vento che trovava nella sua struttura cavernosa una potente cassa di risonanza reso maggiormente temibile dal fragore delle onde che rumoreggiavano in basso le conferiva un aspetto lugubre e minaccioso.
Addossato alle pareti come per trovarvi riparo, camminavo piano quasi a tentoni, incerto se proseguire o, palesando inequivocabilmente ai fedeli il mio cuor di leone, battere in ritirata. Rabbrividivo a tratti raccomandandomi a tutti i Santi del Paradiso e rivolgendo loro mentalmente delle preghiere.
Sono giunto così nella parte più interna e soffocante del Grottone.
Un rumore nuovo e di dubbia natura alle mie spalle mi ha fatto trasalire. Forse erano dei passi cadenzati che percuotevano con forza il selciato o qualcos’altro di non ben definito che seguiva puntualmente le mie orme.
Ho cercato di guardare nel buio, senza vedere niente.
Intanto il cuore ha preso a martellarmi ed il respiro mi si è fatto affannoso; le mani stringevano la corona del Rosario; invano cercavo di convincere me stesso che ciò che credevo di avvertire fosse frutto unicamente della paura, di quella pazza paura che mi aveva colto all’improvviso facendomi battere i denti e rendendomi incapace persino di pensare.
A che cosa serviva la mia razionalità, se vacillava di fronte al buio della notte ed agli strani rumori prodotti dal tramestio del vento e del mare?
D’un tratto una figura mostruosa mi ha sorpassato di gran carriera parandomisi poi davanti ed urtando il mio viso.
Era reale, viva e pelosa e non scaturiva certo dalla mia fantasia esaltata. Mi sono bloccato di scatto e, forse per un istante, anche il cuore ha cessato di battere, o almeno così mi è sembrato.
Poi ho udito un urlo disumano acuto e strozzato uscire incontrollabile dalla mia gola, a cui ha fatto eco un suono basso e rauco, del tutto simile al raglio di un asino.
Intanto mi giungeva da lontano una voce ‘umana’ e questa volta non si trattava di un’allucinazione:
– Calmatevi! Non vi spaventate! Siete voi don Pie’? Io so’ Veruccio Martiello e chistu sfaccimm’ è ‘u ciuccio mio, ‘Federale’. Cos’è pazze! Ha spezzato ‘a fune e se n’è fuiuto. Lo sto cercando d’acchiappare da mezz’ora… Me sta faccene schiatta’ ‘ncuorpo! Miserabile ‘i ‘nu ciuccio!
L’uomo mi si è avvicinato ansimando ed ha recuperato il suo animale salutandolo con due colpi di frusta sulla schiena:
– “Iamme, iamme… Iammungenne, bestiaccia infame! Prova ancora a scappa’ e vide che t’aspetta, bruttu scurnacchiate…Piezz’ ‘i galera!
Il raglio del quadrupede gli ha risposto rassegnato e lamentoso, mentre le quattro zampe pestavano il suolo in segno di blanda protesta.
Prima di riprendere il cammino Veruccio Martiello, additando l’asino, in un bisbiglio complice mi ha soffiato nell’orecchio questa confidenza:
– A voi sì, Don Pié’, lo posso dire… è come in confessione: il suo vero nome è Stalìn; ma mia moglie, che è la prudenza fatta persona, mi ha convinto a chiamarlo Federale, pecché dice che con certa gente non si sa mai… anche il nome del ciuccio potrebbe mettermi nei guai…
Rinfrancato, ho proseguito a passi lenti per la mia strada.
Il cielo ad Oriente acquistava una strana tonalità di grigio per poi schiarirsi a poco a poco; giungeva freddo, il nuovo giorno.
Arrivato al cimitero, ho ripreso il mio ruolo di sacerdote ed insieme ad esso l’austero e consueto contegno razionale.
Ho officiato la Messa ed ho parlato a lungo ai fedeli, ostentando certezze incrollabili che io stesso non possiedo.