di Giuseppe Mazzella
Il regno della sua infanzia era il quartiere di Le Forna che porta il suo stesso cognome: Sandolo.
Filomena, che oggi ha 84 anni, è nata infatti nel 1929, di quel periodo magico ricorda tutto.
– È stato il periodo più bello della mia vita. I giochi semplici con le mie compagne, consistevano in corse spericolate, lancio di sassi e raccolta dell’erba per i conigli che noi spesso ci giocavamo con le ‘crastule’ e capitava che a sera a casa portavamo il sacco vuoto. E le nostre mamme, pazienti, ci perdonavano quasi sempre quelle marachelle.
– Come eri tu da bambina? – le domando.
– Ero molto vispa e andavo sempre in giro ad osservare.
Il mio mondo era la mia collina e il braccio di mare sottostante della Cantina. Lì, sulla secca detta della Chiesa, potevo osservare “u vuoie marine” (una foca monaca) che stava delle ore a prendere il sole. La sua apparizione per tanto tempo era l’indicatore di peggioramento del tempo, mi ricordava il parroco del tempo e mio zio don Francesco Sandolo.
– Una foca monaca giù alla Cantina? – le chiedo meravigliato.
– Sì, l’ho vista tante volte e mi faceva paura. Era come un grosso maiale e ne stavo lontana, ovviamente.
Don Francesco Sandolo – mi dicono – era contadino, pescatore, medico, oltre che sacerdote.
– È vero, sapeva fare tutto e quante volte noi bambini ci riuniva per il dettato: la “perchia”, lo “scorfano”, e ci faceva trascrivere pagine che parlavano di cose che conoscevamo. Andava anche a fare i bagni di mare e una volta, ricordo, lo dovettero legare dietro la barca per farsi portare a terra perché a causa della grassezza non riusciva più a risalirvi”.
E poi sei cresciuta…
– Sì, sono cresciuta, e da signorina cominciavo ad andare alle feste da ballo che, al di là dei matrimoni, si organizzavano a volte casa dei vicini, portando di qua e di là un grosso grammofono.
– Quando conoscesti tuo marito e come avvenne il fidanzamento? – le domando ancora.
– Era al matrimonio di Lisetta e Umberto Scarogni. Avevo meno di diciotto anni. Ballai tutto il pomeriggio e a un certo punto, tutta accaldata, ebbi sete e vuotai tutto d’un fiato un bel bicchiere di vino. Mia madre Anastasia mi rimproverò per quel gesto poco elegante al quale mi ero abbandonato davanti a tutti quei giovani. Ma io risposi impertinente che chi mi voleva in sposa era bene che sapesse che io bevevo vino. E fu proprio quel mio gesto spontaneo, anche se sgraziato, a colpire il mio futuro marito, Michele, che il giorno dopo venne a casa mia a chiedere la mia mano…
E così finiva la spensieratezza.
– E così finiva la spensieratezza e cominciavano le prove della vita. Che per la verità erano già iniziate con i naufragi di mio padre Domenico che sopravvisse a ben tre. Già nonno Silverio, detto “Suvarella” nel 1911 aveva subito un naufragio a la Galite in Tunisia dove si salvò aggrappandosi all’albero del bastimento. Mio padre sopravvisse al naufragio del “San Silverio” che avvenne nelle acque della Liguria. In quella occasione mia madre e alcune zie e zii recitarono le “orazioni” per tutta una serata. Mio zio Salvatore ad un certo punto cominciò a strillare: sono sordo, ma ho sentito il rumore del motore! Era il segno che mio padre era sopravvissuto al naufragio.
– Come è stata la vita da sposata, durante la guerra – chiedo.
– È stata bella, ma dura. Non avevamo niente da mangiare, specie durante la guerra. Ci cibavamo di “menesta selvatica”. E la penuria durò anche per anni nel dopoguerra, quando un mio zio, zì Peppe ‘i Capaianca, con il suo gozzo trasportava da Terracina le poche derrate alimentari che riusciva a trovare e le scaricava alla scogliera del monte Schiavone. Noi le portavamo poi a spalla a casa”.
– Tuo marito Michele quali lavori ha fatto?
– Prima pescatore in Sardegna, a pesca di corallo, poi imbarcato per cinque anni sulle petroliere e poi per dieci anni in America a Springfield nello Stato del Massachusetts a lavorare in un ristorante di alcuni parenti. Quanti sacrifici!
Tu sei mai stata in America?
– Sì, ci sono stata due volte. E mi piaceva, per la verità, e avrei voluto restarci. La seconda volta per un anno intero. Dopo siamo rientrati e abbiamo messo su una panetteria qui sulla Montagnella a Le Forna, che mio figlio Silverio ha condotto fino ad oggi. Insomma lavoro, lavoro, lavoro. Ma ringraziamo Dio!
– Una volta come era la vita, più bella di adesso? – chiedo.
– Per me sì. E’ vero c’era la povertà, ma la gente si voleva bene si aiutava. E poi la maggior parte era “pastosa” con tutti e si viveva sereni e in armonia”.
– ‘Pastosa’, cosa significa, “pastosa”? – le domando infine.
– Significa socievole, sorridente, amica.
La lascio con le foto incorniciate che mi ha appena mostrato dei nonni, genitori e zii, vicino alle “campane”, che custodiscono antiche statuette e immagini sacre.
– Appartengono, mi dice con orgoglio, al corredo di mia nonna e che ho voluto portare nella mia casa.