di Vincenzo Ambrosino
E tu hai creato anche per noi questo regno,
imprendibile regno per sconosciuti.
Alcuni che vi sono giunti, annunciati come lo siamo stati noi
sono morti al mondo per rivivere nella letteratura.
Ora siamo capaci di scrivere, sentire, percepire
la voce dei fantasmi delle stagioni passate.
Siamo stati iniziati ad una vita bucolica
che solo i puri riescono a far rivivere.
All’alba, si rinnovava il miracolo
quando si partiva da casa,
assonnati, ancora sognanti, si andava
oltre il monte che una volta superato faceva
da argine alle nostre paure.
Davanti il cielo e il mare… l’infinito.
Protetti dal mondo, vivevamo un altro mondo.
Il miracolo si ripeteva:
in autunno quando le viti erano cariche,
uva di paradiso, grappoli carnosi,
i nostri giovani corpi pronti alla raccolta
di giorno, di notte la vendemmia dell’amore.
Il miracolo si ripeteva:
in inverno quando cercavamo
bagnati e infreddoliti
quel tepore che il nostro rifugio ci donava
e noi, accovacciati come lattanti intorno
ad un piccolo tavolo pieno di sorprese
trovavamo un nuovo corpo materno
per prolungare all’infinito la nostra eterna infanzia.
E il miracolo si ripeteva:
nella tarda primavera,
“l’impareggiabile spettacolo del ritorno
delle quaglie dall’Africa con i cani in ferma”.
Negli orti i carciofi e le fave
appena colti profumavano le cantine,
gli asparagi crescevano ovunque,
Eravamo sicuri di essere in vita!
Abbiamo ammirato incantati come serpenti al sole, l’antica pazienza
di mani callose, mai stanche a districare i nodi della sopravvivenza
tra filari bassi di viti.
Ma oltre la fatica, oltre il sudore, oltre la necessità
abbiamo ritrovato la condivisione di un sogno.
Abbiamo imparato da veri uomini a saper giocare in vita e con la vita.
“L’uomo che non gioca, ha perso
per sempre il bimbo che viveva in lui,..”
la nostra casa l’abbiamo costruita come un giocattolo
e ci abbiamo giocato dalla mattina alla sera.”
Inconsapevolmente, siamo diventati parte di un rito
che si ripeteva immutabile per tutto l’anno:
Il tempo, i gesti, le parole, le frasi, i giochi, gli amori, le passioni,
percorrevano gli umori, i sapori, le melodie delle quattro stagioni.
Stavamo al Fieno perché uomini liberi,
ma seguivamo regole non scritte, non imposte, suggerite
da un regista divino.
“Quando il sole, con i primi raggi,
toccava gli scogli,
batteva il tempo della cosiddetta ‘marenna’.
“U sole sta pezzecànne” – si sentiva in tutta la valle.
“Viene a béve!” – era il grido di una memoria collettiva
che per duecento anni si è perpetuata ogni giorno.
Dai terrazzamenti vedevi i vignaiuoli,
annunciati dall’abbaiare dei cani
raggiungere la cantina di turno.
Ognuno nel proprio zaino portava qualcosa da casa,
preparato dalla moglie la sera prima e nell’aprirlo,
vedevi un sorriso sul loro volto,
come i bambini quando rompono l’uovo di cioccolato a Pasqua.
Spesso loro stessi non sapevano cosa sarebbe uscito da quello zaino”.
Hai rubato per noi la saggezza di Adalgiso,
ci hai svelato la fantasia di Ninotto a Feccia,
ci hai fatto comprendere la poetica di Giustino,
inseguire la purezza di Ciccillo Damigiana,
toccare la semplicità di Luigi,
imitare l’allegria di Gioì,
sognare la forza di Pasquale,
aspirare alla fedeltà di Silverio ‘a Bufera,
ammirare la religiosità di Silverio Mazzella,
raggiungere la coralità di Benito.
Anche noi, come il tutto al Fieno siamo arrivati all’incontro con l’armonia.
Grazie per tutto questo amico mio.
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Nota – Nella foto di apertura, da sin a dx: Antonio, Sergio Di Giovanni, Vincenzo, Enzo Gargano