di Enzo di Giovanni
Per la puntata precedente del 28 apr. 2013, leggi qui
Le considerazioni scaturite dal dibattito sul mercato (leggi qui, e qui), mi danno spunto per altre riflessioni a proposito della vocazione di Ponza. Nel precedente scritto avevo accennato alla non-vocazione turistica dell’isola.
Provo a spiegarmi meglio.
Non credo alle vocazioni. Danno l’idea di qualcosa di trascendentale, che sfugge al libero arbitrio dell’uomo: la vocazione è parente stretta della Verità assoluta, quella che non è in discussione.
E come tutte le verità assolute, da maneggiare con cautela.
Perché le vocazioni di solito si subiscono: come moda del momento o peggio, disegno organico ad interessi di parte.
Ponza di vocazioni ne ha avute tante: la vocazione al confino, ad esempio. Chi può dire che fosse una scelta scellerata? Cosa più “vocativo” di un’isola, facile da controllare, ed al contempo relativamente vicina al continente da renderla logisticamente interessante come luogo di pena?
Persino la letteratura veniva incontro a tale visione:
“Su Ponza e sugli altri isolotti incombeva una maledizione. Chi vi sbarcava scompariva dal mondo. Erano isole dimenticate, terre d’esilio” (Norman Douglas – Summer Islands -1931)
E come non citare Pasquale Mattej, dal suo L’Arcipelago Ponziano (1857): “… o Palmaria…se queste orride rupi, queste deserte lande, punto non cangiarono di aspetto da’ tempi romani fino ad oggi, e tetre e spaventevoli rimangono…”?
Mattej parla di Palmarola.
Già, la stessa isola considerata dal National Geographic tra le dieci più belle isole del mondo. E poi da Folco Quilici. E poi dalle decine di migliaia di visitatori estivi.
Forse che Douglas e Mattej erano usciti di senno?
No, semplicemente si rifacevano al gusto, alla vocazione dell’epoca.
Mattej, in particolare, dalla sommità del faraglione di S. Silverio si concesse una licenza poetica al suo stile altrimenti rigoroso per testimoniare il suo tormento al ricordo del martirio inflitto al nostro Santo.
E che dire della Ponza mineraria?
“La bentonite bianca, unica miniera finora scoperta nel mondo, è materia prima basilare per l’acciaio, la carta, la porcellana e svariate industrie e costituisce autarchia al 100%”: così recita un filmato del 1939 dell’Istituto Luce. Del resto, aldilà della retorica di regime, è difficile non considerare vocazione lo sfruttamento di migliaia e migliaia di tonnellate di prezioso minerale, con le centinaia di posti di lavoro che ne conseguono.
Le vocazioni, dicevo, sono pericolose.
Al punto che il sindaco Vitiello non riuscì a realizzare la sua vocazione (o visione?) di fare di Ponza una novella Capri, stretto com’era nella Ponza di inizio Novecento tra un regime confinario ben lungi dal cessare, ed una attività mineraria che stava per nascere.
Può essere gustoso (ed e-vocativo) leggere le note di Silverio Corvisieri (All’isola di Ponza – 1985) a proposito dei disservizi nei collegamenti marittimi (sic!) dell’epoca:
“… le isole pontine non furono mai trattate come gli altri arcipelaghi del golfo di Napoli… L’onorevole Cantarano denunciò le inadempienze della società concessionaria e anche le gravi lacune della convenzione stipulata nel 1893…
… si rivendicò l’abolizione della concessione ad una società privata, la Span, i cui azionisti avevano forti partecipazioni nelle società alberghiere di Capri e Sorrento. Costoro evidentemente tutto da perdere e niente da guadagnare dallo sviluppo turistico di Ponza: così si spiegavano il cronico disservizio…
…nel frattempo la linea Anzio – Ponza era caduta nel dimenticatoio dopo il sistematico sabotaggio della società concessionaria che aveva sempre più diradato e resi capricciosi i viaggi…”
Nulla avviene per caso: le vocazioni di Ponza, evidentemente, all’inizio del secolo breve erano altre…
[La vocazione di Ponza. (2) – Continua]