di Gino Usai
Dopo aver frequentato un corso da telescrivente per la durata di un mese presso la Olivetti di Ivrea, i marinai ponzesi Totonno Scotti e Furio Conte, in servizio di leva obbligatoria nella Regia Marina, vennero assegnati al Ministero della Marina a Roma, al Reparto Comunicazioni della Quarta Sponda, cioè l’Africa, addetti alla telescrivente.
Era il 23 luglio del 1943.
All’Ufficio Comando vi era il ponzese Cesare De Luca, col grado di Maresciallo, ossia Capo di Prima Classe, con tre strisce. De Luca aveva già prestato servizio al Semaforo di Ponza come Secondo Capo.
Alle sue dipendenze vennero affidati i due nuovi operatori telescriventi: Totonno e Furio.
L’ufficio era costituito da una grande Sala con 50 telescriventi in comunicazione con tutta l’Italia.
Il giorno dopo, il 24 luglio 1943, arrivò in Ufficio una comunicazione radio, un P.A. (Precedenza Assoluta) da Circeo, e un altro da Gaeta entrambi dicevano: “Forte formazione aerea nemica dirigesi verso Roma”. Gli operatori, come previsto dal caso, si rifugiarono in sede protetta.
De Luca sparì, fece ritorno dopo una decina di minuti piangendo.
“Pirosacafo S. Lucia attaccato a Ventotene e affondato, tutti morti” segnalavano le telescriventi da Gaeta e da S. Felice Circeo.
Allora De Luca subito si attivò per avere ulteriori notizie dall’isola, soprattutto per quanto concerneva la sorte delle loro famiglie; così si mise in contatto col semaforo di Ponza attraverso S. Felice Circeo a cui che era direttamente collegato.
Il Semaforo di Ponza non era dotato di telescrivente e comunicava con il Morse; il marinaio ponzese Vittorio Scotti vi lavorava con il grado di Secondo Capo Segnalatore. Insieme a lui altri militari ponzesi: Guido Vitiello, Coppa Silverio, Curcio Temistocle. Tramite loro seppero da Giosuè Conte, padre di Furio, intento a coltivare la vigna sopra la Guardia, che le loro famiglie non erano state toccate dalla sciagura, e questo li tranquillizzò molto. Tali contatti durarono alcuni giorni, fino ad appurare e a definire con certezza i dettagli della tragica vicenda.
Negli ambienti romani, nell’estate del 1943, si vociferava dell’eventualità di un imminente sbarco Alleato a Nettuno o a Gaeta. La guerra si avvicinava maledettamente.
La caduta del fascismo li sorprese, e con l’armistizio dell’8 settembre giunse lo sbandamento, non si sapeva più cosa fare. In caserma si erano tutti squagliati. Totonno e Furio chiesero a De Luca cosa fare, come comportarsi. “Ognuno si regoli come vuole!” esclamò De Luca. Decisero di restare tutti in servizio. Ma gli eventi precipitavano e a metà Ottobre De Luca disse: “Adesso ognuno di noi prenda la sua strada. Io vado a Montefiascone”. Totonno e Furio lo accompagnarono alla stazione e restarono in caserma.
In un giorno d’ottobre, per le strade di Roma, incontrarono il compaesano Salvatore Verde, classe 1915, Sergente Segnalatore di Marina; veniva da La Spezia, sbandato anche lui. Aveva trovato rifugio a casa di Silvio Campanile; dormiva su dei cartoni nel suo negozio. Maria Bosso invitò a rifugiarsi presso di loro anche Totonno e Furio. Erano sotto occupazione tedesca e speravano tutti che arrivassero presto gli americani. Totonno e Furio accettarono l’invito e furono ospiti di Maria. Ma la clandestinità fu dura: anche a loro toccò dormire sui cartoni stesi sul pavimento del negozio, col timore di essere scoperti dai tedeschi e mandati a scavare trincee a Nettuno o deportati in Germania.
Totonno e Furio, come tutti i giovani del loro tempo, si sentivano intimamente fascisti, legati alla figura di Mussolini. Il contatto con Silvio Campanile, Mario Magri, Placido Martini e la loro organizzazione politica antifascista, fece maturare in loro ripensamenti e nuove idee, idee di libertà, di democrazia e di pace. Ma bisognava lottare. Campanile e Magri erano parte integrante della resistenza clandestina romana. Così anche Totonno e Furio si trovarono coinvolti in quella lotta di resistenza, con tutti i rischi del caso.
Furio cominciò ad assumere le funzioni di libraio, per dare una mano a Maria. Un giorno, entrando nella cartoleria, un tedesco rivolto al suo commilitone disse: “Guarda qui, in un locale così piccolo tre persone a lavorare!”. Verde, che conosceva un po’ di tedesco, afferrò il concetto e i sospetti dei tedeschi e sottovoce disse a Furio: “Mandalo via!”.
Campanile aveva il compito di organizzare il recupero di tutti i militari sbandati e raccoglierli in un ristorante abbandonato nei pressi della Piramide di Porta S. Paolo. Bisognava mettere su una forza clandestina da usare al momento opportuno. Ne raccolse una settantina, ma non avevano armi.
A Totonno era stato affidato il compito di recarsi tutti i giorni con una valigia presso il forno di via della Scrofa, ove il fornaio sor Marcello gli riempiva la valigia di circa cento ciriole che lui provvedeva a portare al rifugio di Porta S. Paolo. Era tutto estremamente pericoloso, la città era sotto le pattuglie tedesche.
Tra gli sbandati reclutati vi erano anche due ufficiali fascisti infiltrati.
Il 26 gennaio 1944, Silvio Campanile, Carlo Zaccagnini, Giuseppe Celani, Mario Magri, Placido Martini e Frasca Celestino si riunirono al ristorante “La Rosetta”, di fronte al Pantheon, per coordinare la loro azione.
Campanile era cosciente del rischio che correvano e aveva detto alla moglie: “Se per le otto di sera non faccio ritorno a casa, voi sparite dal negozio.”
Alle otto di sera Campanile non fece ritorno a casa e allora scattò immediatamente l’allarme. Lasciarono la libreria e si rifugiarono tutti in un appartamento vuoto messo a disposizione da un confinato politico amico di Maria, che le aveva lasciato le chiavi per ogni evenienza. Quella notte dormirono lì, Maria col piccolo Enrico di 7 anni, Furio, Totonno e Salvatore Verde. L’indomani seppero della retata e dell’avvenuto arresto di tutti i cospiratori che erano nel ristorante.
Infatti mentre pranzavano, al piano superiore del ristorante si presentò un corriere insieme a un manipolo di fascisti e nazisti; li arrestarono tutti e li portarono nella già famigerata via Tasso. Il gruppo era stato infiltrato da spie che si fingevano collaboratori.
Ogni sabato Maria, Totonno e Furio andavano a via Tasso a portare la biancheria a Silvio, ritirando il cambio. Non era concesso vedere i prigionieri.
Un sabato nei locali di via Tasso videro aggirarsi due ufficiali, e capirono che erano loro le spie infiltrate nel gruppo che avevano determinato l’arresto. Maria si scagliò contro di loro urlando: “Traditori…disgraziati..e vi abbiamo trattati come fratelli!”.
Uno di loro rispose: “Stia attenta signora, se no… ce n’è anche per lei!”
Totonno e Furio la portarono via.
Da quel giorno Totonno e Furio non andarono più a via Tasso, per evitare di essere arrestati anche loro, prima o poi. Maria naturalmente continuava a recarsi a via Tasso, in compagnia della compaesana Rita Parisi, moglie di Mario Magri. Capitava a volte che trovavano la biancheria sporca di sangue.
Tornarono, dopo la prima notte trascorsa fuori, a dormire tutti in libreria, che continuò a restare aperta.
Per quasi due mesi i prigionieri dovettero subire gravi torture e soprusi di ogni genere.
Giuseppe Ciaffei, in riferendosi alla prigionia di via Tasso del suo compaesano di Placido Martini, scrisse: “Sanguinante per il naso rotto, l’orecchio sinistro strappato, le sopracciglia divelte, dolorante per le costole rotte dalle percosse e i piedi piagati dai tormenti, dimostrò fortezza d’animo, indomita volontà di resistenza, supremo ed eroico altruismo, rifiutando sdegnosamente gli allettamenti della delazione”.
Il giorno fatidico Maria si recò in carcere per portare, come sempre, il cambio pulito a Silvio, ma le guardie le dissero che da quel giorno non si accettava più biancheria per i detenuti. Maria s’insospettì e andò via turbata. Il giorno dopo i giornali pubblicarono la notizia della fucilazione dei prigionieri di via Tasso. Era il 25 marzo del 1944.
Un mese dopo le arrivò una lettera dal comando tedesco. Maria si fece tradurre la lettera da un vicino di casa, un sarto. C’era scritto che Silvio Campanile era stato fucilato il giorno 24 marzo. Maria gettò un urlo di dolore, era accaduto quello che aveva ampiamente immaginato. Totonno e Furio la confortarono e l’accompagnarono a casa. La settimana successiva a Maria giunse una missiva simile dal comando tedesco indirizzata a Rita Parisi. Capirono subito di cosa si trattava. Ma Rita non si sapeva dove fosse. Dopo una settimana venne rintracciata e Maria le consegnò la lettera che la informava della fucilazione di Mario Magri. Rita si disperò. Maria le disse piangendo che la stessa sorte era toccata al marito. Piansero infinitamente. A una certa ora l’accompagnarono a casa. Totonno andò a Piazza SS. Apostoli per noleggiare una carrozzella. Rita era disperata, e per prudenza Totonno disse al questurino: “Abbassate il mantice, la signora sta male, ha la febbre!” Furio e Totonno la fecero sedere tra loro e l’accompagnarono nella sua bella villa con viali, giardini e alberi ai Parioli. Alla signora che gli andò incontro raccontarono l’accaduto e gli affidarono Rita.
Da quel giorno non s’incontrarono più. Tornati al negozio, ripresero lentamente la triste vita quotidiana sotto il terrore tedesco. Vendevano libri e dormivano a terra nel retrobottega.
Il 28 marzo, dalle cave cominciò a esalare un terribile fetore. I nazisti allora fecero esplodere altre cariche per ostruire meglio le cave, per non far scoprire i cadaveri. Ma i romani capirono subito cosa era c’era là dentro e la notizia si diffuse velocemente per la città. Fu subito un accorrere di persone, chi pregava, chi s’inginocchiava, chi portava dei fiori.
Quando seppero la notizia della morte di Silvio, Maria, Totonno e Furio si recarono all’Ardeatina nella speranza di ritrovare il suo corpo. Alle cave vi erano due o tre cadaveri coperti di terra, con fiori e lumini posti lì da mani pietose. Maria si mise a grattare per rimuovere la terra sperando di trovare il marito.
Totonno le disse che non poteva essere lì il marito, in quanto vi erano già dei lumini posti dai parenti della vittima. Allora si allontanarono verso un vicino convento. Totonno era stanco e si fermò su di un muretto. Maria entrò nel convento in cerca di notizie, e le dissero: “Signora, è stata una cosa molto triste. Quando arrivavano i camion con 30/40 prigionieri, li facevano scendere e li conducevano nella cava. I prigionieri capivano che non andavano lì per lavorare, ma per morire. Infatti li ammassavano al muro e li fucilavano. Gli urli di dolore erano tremendi. Allora i tedeschi lasciavano i camion accesi a tutto gas e suonavano le sirene per coprire i colpi e le urla. Infine si sentiva il colpo di grazia.”
Il lavoro di identificazione dei cadaveri durò sei mesi, in mezzo a enormi difficoltà, con i familiari disperati, in cerca di qualche segno: un vecchio orologio, un brandello di vestito, montature di occhiali, anelli, penne stilografiche, fazzoletti per identificare il proprio caro.
Intanto, il 30 marzo, sette giorni dopo la strage delle Ardeatine, a Maria giunge la notizia che sua sorella Giuseppina è morta.
(Continua)
Gino Usai