di Rosanna Conte
L’amena scrittura di Rita Bosso ne “Il tempo di fare il letto” (leggi qui) mi ha sollecitata a pensare che ci sono altri aspetti della vita delle donne, nostre antenate, che vale la pena ricordare.
Lino Pagano l’ha fatto amabilmente e con dovizia di particolari parlando del bucato, ‘a culata, un lavoro pesante e lungo che non si faceva certamente tutti i giorni (leggi qui).
Io non ho mai assistito all’azione collettiva delle donne di casa, perché la mia famiglia abitava a Procida, lontano da zie e nonne, e mia madre doveva fare tutto da sola.
So da mia zia che per un certo periodo, la nostra biancheria da lavare veniva mandata addirittura a Ponza col postale che, partito da Napoli, passava per Procida. Questo accadeva nei primissimi anni di permanenza sulla piccola isola, prima che fosse costruito l’acquedotto sottomarino, quando anche l’acqua delle cisterne di casa era poca.
Ma nella mia memoria è presente chiaramente il cufanature, la tinozza tronco-conica di creta col foro nella parte inferiore, da tappare accuratamente prima di sistemare all’interno la biancheria già lavata – col caratteristico sapone molle di Marsiglia – e strofinata sulla tavolozza dei panni. Nella culata confluivano sia i pezzi della biancheria della casa – lenzuola, tovaglie, strofinacci… – che quelli della biancheria personale che, prima che si diffondessero i tessuti sintetici, era fatta di cotone o lino – mutande, camicie, camiciole, camicie da notte, pannolini, fasce ecc…
Cufanature rattoppato
Il cufanature di casa mia bisognava issarlo su una solida base di legno ed era rattoppato, perché allora non si buttava niente; anche le cretaglie più minute spesso venivano rattoppate.
Il mago era l’accongiacrastule o accongiambrelle, l’ambulante che riparava gli oggetti di creta – quindi anche i grandi piatti per le conserve o le zuppiere – oltre agli ombrelli.
Quando arrivava, dopo il grido di rito – “Uè, belle femmene, è arrivato ’u ‘ccongiambrelle! Scennite!” – tirava fuori dalla sua borsa a tracolla un trapano a mano, un filo di ferro, il barattolo col mastice e un impasto di gesso ed aspettava che le donne gli portassero il lavoro. Io lo guardavo dalla mia finestra.
Era abilissimo e veloce: univa i pezzi col mastice di cui aveva solo lui la formula, faceva i fori col trapano, ci passava il filo tagliato a graffette e ricopriva il tutto con lo stucco per otturare i fori e ricoprire le giunture.
Nella mia memoria olfattiva è, però, rimasto l’odore della lisciva, che si preparava nella grande pentola di rame con acqua e cenere (carbonato di sodio), residuo del legno bruciato per cucinare o per riscaldarsi.
Diventato idrossido di sodio, cioè soda caustica, si versava poi sul telo filtrante, il cinerario, aggiungendo buccia di limone, gusci d’uovo, alloro. A Ponza so che veniva usata la mortella. Per le dodici/ventiquattro ore successive il profumo permeava l’ambiente della cucina, dove era situato il cufanature.
Ma da quale lontano mondo era stata ereditata la liscivia?
La liscivia o rànno è stata per millenni l’unico sgrassatore valido per i tessuti e la pasta che si estraeva dal deposito di cenere dopo la bollitura serviva per la pulizia della casa e delle pentole, insieme alla sabbia, là dove era reperibile.
Le prime tracce di sapone, che si fa con olio e soda, le troviamo in alcuni cilindri di terracotta risalenti al 2800 a.C. in territorio mesopotamico.
Modello di cilindro di terracotta del III millennio tipico della Mesopotamia
La prima formula di un sapone è stata trovata su tavolette di argilla sumeriche del 2500 a.C. in scrittura cuneiforme (una parte di olio e cinque parti e mezza di potassa) e al 2200 a.C. appartiene la descrizione della preparazione di un sapone con acqua, sostanze alcaline e olio di cassia (piante della famiglia delle Leguminosae, sottofamiglia Caesalpinoideae, costituite da alberi, arbusti ed erbe; cresce nelle regioni tropicali, ma alcune varietà sono coltivate anche in Italia per scopi ornamentali).
Papiro di Ebers, 1550 a.C.
Anche gli Egiziani ci hanno lasciato informazioni su un papiro risalente al 1550 a.C., il papiro di Ebers, su un tipo di sapone nato dalla combinazione di oli animali e vegetali e sostanze alcaline. Plinio il vecchio ci dice che i Fenici, nel 600 a.C., preparavano il sapone col sego di capra e cenere di legno. Nella Bibbia, poi, troviamo vari riferimenti nei libri dei profeti Geremia (2,22) VII sec a.C., Malachia (3,1-4) e Giobbe (9,30) V secolo a.C.
Plinio il Vecchio
Gli antichi romani conoscevano il sapone in quanto usato dai Galli, ed era un miscuglio di sego (grasso animale) e cenere col quale si tingevano di rosso i capelli. Plinio ci dice che ne facevano largo uso, ma lo sconsiglia ai romani che, tuttavia, dopo la propaganda di Galeno (II secolo), il medico dell’imperatore Marco Aurelio, cominciarono ad usarlo (solo gli uomini, le donne preferivano astenersi). Nel secolo successivo, l’imperatore Settimio Severo riuscì a promuoverne l’uso in maniera diffusa.
Galeno
Con Carlo Magno, fra l’VIII e il IX secolo, l’arte di produrre il sapone si diffonde in Spagna e in Francia, ma è tra gli arabi che c’è il sapone migliore prodotto con olio di oliva o di timo unito alla soda caustica, cioè la liscivia: è profumato e colorato, può essere solido o liquido. Hanno imparato ad Aleppo dove è conservata la tradizione della lavorazione artigianale risalente ai babilonesi e vede l’uso dell’olio di oliva mescolato con quello di alloro.
Sapone di Aleppo moderno
Così, nel XII secolo, grazie ai crociati che tornano dalla Terrasanta, questi saponi vengono portati in Europa e nascono i primi saponai che rielaborano la qualità del composto. Sarà Marsiglia a conservare la procedura e gli elementi del sapone di Aleppo, che è l’origine di tutti i ‘saponi duri’ del mondo, ma ormai, quasi dappertutto, all’antico sego si è sostituito l’olio che varia la sua tipologia a seconda della regione dove c’è la produzione.
Anche il tipo di liscivia cambia a seconda della pianta da cui deriva la cenere.
A Marsiglia si usava cenere di salicornia (Salicornia europea, una pianta grassa della famiglia delle Chenopodiacee o Amaranthaceae che cresce presso acquitrini e acque salmastre ed ha un elevato contenuto salino.
Salicornia europea, fotografata presso lo stagnone di Mozia (TP)
La prima vera fabbrica di sapone di Marsiglia è del 1593, ma nel 1660 sono diventate già sette e la dicitura “sapone di Marsiglia” diventa di uso comune.
E’ per tutelare il prodotto con questo nome che il grande ministro di Luigi XIV, Colbert (applicando la dottrina politica del Mercantilismo che sostiene la protezione delle produzioni pregiate interne), emana l’editto del 5 ottobre 1688 con cui regolamenta la produzione del sapone.
J. Baptiste Colbert
In esso si stabilisce che è vietato utilizzare nella fabbricazione del sapone il grasso, il burro o altro materiale; insieme alla barrilla (soda prodotta in Spagna dalla Salsola, pianta grassa della stessa famiglia della Salicornia), o alla soda francese o cenere, si può mescolare soltanto puro olio di oliva, altrimenti c’è la confisca delle merci.
Salsola
Inoltre l’editto impone ai saponai di non lavorare d’estate perché il caldo nuoce alla qualità del sapone. Questo editto ha garantito la qualità del sapone di Marsiglia rendendolo il migliore fino ai nostri giorni, anche se dal 1820 non è stato più usato l’olio d’oliva, ma sono stati introdotti gli oli di cocco, di arachide, di palma e di sesamo.
Sapone di Marsiglia
La formula definitiva è stata fissata nel 1906 da Francois Merklen: 63% olio di copra (polpa essiccata del cocco) o di palma, 9% di soda , 28% di acqua.
A partire dalla fine del ‘700, intanto, si era avvertita la difficoltà a reperire il carbonato di sodio in cenere in quantitativi sufficienti a soddisfare la richiesta di sapone il cui uso, ormai si stava diffondendo sempre più. Questo stimolò la ricerca e ci si orientò verso il sodio presente nel mare.
Da allora sono stati fatti passi avanti nella ricerca, e Nicolas Leblanc prima, nel 1791, e Ernest Solvay dopo, nel 1861, hanno dato un valido contributo; ma dobbiamo arrivare al XX secolo per superare il problema con le scoperte della chimica (stimolata sempre dalla difficoltà, questa volta a reperire i grassi e gli oli durante le due guerre mondiali) che hanno portato ai detergenti sintetici.
Nicolas Leblanc
Ernest Solvay – da cui il nome ‘soda Solvay’ – l’inventore del processo per convertire il cloruro di sodio in carbonato di sodio
E’ stata davvero una conquista?
Per detergere noi, i nostri indumenti, la nostra casa, la nostra macchina, stiamo sporcando irrimediabilmente la Terra, pagando un prezzo altissimo.
L’uso della lavatrice ha aumentato in maniera esponenziale l’uso dei detersivi accentuando il problema, eppure le nostre nonne mantenevano pulito tutto. Ovviamente c’era la grande fatica da fare e c’era il tempo da impiegare. Noi donne di oggi siamo fortunate: quando infiliamo i panni in lavatrice e aggiungiamo il detersivo con i vari additivi, dall’ammorbidente al disinfettante, impieghiamo qualche minuto e ci sprechiamo in qualche flessione. Eppure capita di considerare “fare la lavatrice” una parentesi impegnativa del lavoro quotidiano.
Nell’ultimo ventennio gli studi sull’inquinamento hanno contribuito a formare una diffusa coscienza ecologista e sono stati introdotti sul mercato detergenti a basso grado di inquinamento o del tutto naturali, come la noce saponaria. A livello casalingo, poi, si è generato un passaparola di “formule” non inquinanti e di azioni che mirano al risparmio di energia. In internet, ormai, si trova di tutto, anche come si fa la soda in casa, come si conserva, come si utilizza nelle diverse pulizie e quali precauzioni usare nel maneggiarla.
Myrtus communis, Mortella – (Fam. Myrtaceae): fiori, foglie e bacche
Forse vale la pena provare a farla una volta per ripercorrere i gesti delle nostre nonne che la producevano per la culata e, magari, anche per risentire nella biancheria di casa nostra il profumo della mortella.