di Irma Zecca
Quando ero bambina mi ricordo che guardavo mia madre lavare le lenzuola nei lavatoi di graniglia posizionati al lato del pozzo (’a pescina).
La posizione era strategica, perchè non c’erano i rubinetti e quindi l’acqua veniva attinta dal pozzo con il secchio. Mi divertiva tanto sentire il rumore che faceva il secchio sulla superficie dell’acqua quando mia madre lo lasciava cadere facendo scorrere la fune sulla carrucola (’a trocla), “phaaa”, e poi la muoveva in modo da abbattere il secchio sul lato, affinché si riempisse, e subito con energiche bracciate la fune emetteva un ritmico “tri tri tri” e così fino a riempire le due vasche… ma al contrario di me, la sua espressione non era affatto divertita.
Poi iniziava mettendo in ammollo il lenzuolo nella prima vasca e man mano metteva una parte sul lavatoio, lo insaponava con il pezzo di sapone solido, sfregando bene la parte, lo rimetteva in acqua e dopo aver più volte sciacquato quella parte e solo quella, la faceva scorrere nell’altra vasca come un grosso sciarpone… così, fino a far passare il lenzuolo per tutta al sua lunghezza; a questo punto passava al risciacquo e poi alla “centrifuga” che consisteva in una vera e propria torcitura: con una mano girava a destra e con l’altra a sinistra.
Finalmente il lenzuolo era pronto per la fune, che era legata tra due rami e dopo averlo appeso a metà pendeva al sole in tutta la sua bellezza. Allora sì, che sul suo volto si accendeva un sorriso soddisfatto, e mi diceva: “Ti piace? Ci vuole tanto lavoro per fare un ricamo bello come questo!”
Anticamente si usava preparare il corredo per le figlie femmine, così quando si sarebbero sposate lo avrebbero avuto bello pronto per la nuova casa. Questo corredo non era solo di utilità, era anche una questione di prestigio; più era ricamato e più significava che la ragazza aveva le mani d’oro, che era di buona famiglia, che pensava a maritarsi.
Intorno al corredo ruotava tutta una tradizione tipicamente ponzese: l’appriézz’.
Era una vera e propria valutazione del corredo.
Zia Antonietta mi raccontava che per l’evento si invitavano a casa della sposa, la famiglia dello sposo, suoceri, figli, nipoti, zie e tutte le persone più autorevoli della famiglia.
Si stendeva sul pavimento un lenzuolo di lino fatto a telaio – in genere era formato da tre teli cuciti tra loro -, si mettevano tutte le sedie intorno; da una parte c’era la mamma della sposa con una cassapanca (’a cascia) aperta da cui man mano prendeva i singoli pezzi di corredo da far ‘apprezzare’ ai futuri suoceri e famiglia.
La biancheria era data pezzo per pezzo a due bambini di famiglia che con i piedi nudi camminavano sul lenzuolo steso a terra e passavano in circolo a far vedere e toccare quelle piccole grandi opere d’arte casalinga.
Erano piegati in modo da far vedere il ricamo, ponendo sotto di esso della carta velina colorata, in modo da evidenziarne la fattezza e la precisione con cui era stato realizzato.
La mamma della sposa tuonava :
– Dui lunzùl’ ’i line ’ntagliat’ da cap’ a cap’ – due lenzuola di lino con un ricamo ad intaglio per tutta la lunghezza;
– Dui fierz’ a rezza arricamat’ – due teli ricamati che rifinivano il letto quando c’erano le lenzuola senza ricamo;
– Dui lunzùl’ ’i tele d’Olanda c’u punt’ chin’ – due lenzuola in tela d’Olanda ricamati a punto pieno;
– Quatte cammise ’i notte c’u bordo arricamat’ annanz e arrèt – quattro camice da notte con la scollatura ricamata avanti e dietro;
– Quatte pann’i tavula da dudece complet’ i tovagliuol’ – quattro tovaglie da tavola da dodici completi di tovaglioli… ecc. ecc.
Durante l’appriezz’ si stilava un elenco scritto che rimaneva nella cassapanca come documento.
I pezzi del corredo andavano da un minimo di sei (6 lenzuola, 6 camicie, 6 tovaglie da tavola ecc.) fino ad un massimo di 24; ovviamente il numero determinava quanto la famiglia fosse facoltosa.
La cosa bella è immaginare quando queste ragazze si riunivano, sotto l’occhio esperto della mamma e della nonna. Non al mattino, che era dedicato alle faccende di casa e alla cucina, ma dopo aver pranzato e schiacciato un pisolino di intervallo tra le fatiche del mattino ed il pomeriggio.
Si riunivano, d’inverno attorno al braciere, che era di rame con due manici posizionato al centro di una pedana circolare di legno in modo che si riscaldassero senza essere troppo vicine al fuoco, mentre d’estate sceglievano il lato esterno della casa dove c’era più ombra, dove dominava un profumo di fieno, di foglie di fico, con un sottofondo di cicale, mentre loro facevano le formichine per un domani da donne; chiacchieravano, ridevano e ricamavano… sognando il futuro…
[L’appriezzo. (2). Continua]