di Tina Mazzella
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Sin dai primi momenti tutti si accorsero di quanto la pace tanto faticosamente raggiunta si fosse rivelata amara ed avvelenata da contrasti e da rancori. Non fu difficile capire che la guerra non aveva contribuito a rendere gli uomini migliori, ma che al contrario aveva spento in loro ogni sentimento di solidarietà e di umana pietà esacerbandone gli animi e rinfocolando recriminazioni annose e contrapposizioni mai sopite. Un diffuso malcontento aggravato dalla pesante crisi economica in atto che preoccupava ogni ceto sociale serpeggiava per tutta la penisola.
Si parlava di vittoria mutilata e del malessere di taluni graduati dell’esercito ormai incapaci di rinunciare al ruolo esaltante ricoperto al fronte per riadattarsi ad un’anonima esistenza borghese priva di potere e di momenti di gloria. Si manifestava per la mancata distribuzione delle terre promesse ai soldati dai capi militari sui campi di battaglia per incitarli al combattimento e mai avvenuta. Si denunciava la disoccupazione dilagante, la miseria e la fame. Con frequenza allarmante si moltiplicavano nelle piazze e per le strade i cortei di protesta, le richieste e le provocazioni accuratamente orchestrate per creare disordini.
Spesso l’esasperazione spingeva le persone meno abbienti ad occupare indebitamente terre e fabbriche cui seguivano tafferugli, scontri ed episodi di violenza. La paura, l’odio ed il risentimento covato per anni lievitavano a dismisura e sfociavano sovente in aggressioni, vendette e spedizioni punitive a colpi di manganello ed a frustate di baccalà condite da abbondanti libagioni forzate di olio di ricino.
Neppure Napoli venne risparmiata dal contagio della febbre maligna che infettava la società italiana rischiando di travolgerla. La popolazione troppe volte delusa aveva imparato a diffidare delle istituzioni ed appariva meno scanzonata di un tempo; sembrava che avesse smarrito anche il salutare senso dell’ironia che l’aveva solitamente sorretta contraddistinguendola anche nelle situazioni più buie.
Ritornando dal servizio civile, Gennaro Criscuolo ne aveva avvertito il cambiamento. L’aveva trovata diversa, più sfiduciata e meno accogliente. Anche là, nella sua città, il malessere esplodeva: come dappertutto imperversavano le squadre fasciste pronte a scatenare risse ed a menare le mani. Picchiavano di santa ragione avversari ed oppositori e non di rado uccidevano. Alcune vittime sparivano senza lasciare tracce; altre venivano malmenate per strada o sotto gli occhi impotenti delle loro famiglie; altri cittadini riuscivano ad espatriare.
Gennaro temeva quel clima di intimidazione e di disfatta e di giorno in giorno si andava convincendo che quelle violenze organizzate avrebbero trascinato la città alla rovina. Ed il Re? Si domandava al massimo dello sconcerto, perché il Re non interveniva per fermarle? Era forse indeciso e confuso e stava cercando una via d’uscita da quel caos infernale?
Rimase sbalordito quando, alla fine di ottobre del 1922, si diffuse la notizia che Re Vittorio Emanuele III, sorprendendo un gran numero di italiani, aveva affidato il compito di formare il nuovo governo a Benito Mussolini.
Sapeva che costui era il capo riconosciuto di quel manipolo di fascisti fautori di disordini e di sopraffazioni e che, come loro, pretendeva d’imporre la sua volontà ad ogni costo. S’interrogava sulla effettiva ragione che aveva spinto il Re, quel Re così mite e giusto a cui aveva imparato a credere sin da bambino, a condividere l’amministrazione dello stato con una persona tanto poco raccomandabile. Inoltre fu costretto a prendere atto che anche le rassicurazioni circa l’avvento di un nuovo ordine e di una rapida rappacificazione rimanevano disattese. Le incursioni notturne nelle abitazioni per scovare nemici e per comminare punizioni e le rappresaglie ai danni di cittadini inermi non erano cessate, mentre la situazione politica si faceva sempre più torbida e complicata.
In un’atmosfera incandescente vennero fissate le elezioni per l’aprile del 1924.
Gennaro non sapeva per quale partito avrebbe votato; di sicuro non per i fascisti, su questo punto non c’erano dubbi. Per farsi un’opinione più precisa e meno parziale al riguardo, ascoltava con interesse le discussioni familiari che avvenivano di preferenza a tavola durante i pasti. Il padre e quattro dei suoi fratelli cattolici per tradizione si accaloravano circa l’opportunità di votare per il partito Popolare; Salvatore, Renato e Placido invece erano convinti della necessità di esprimersi a favore del Partito Socialista impegnato in prima linea nella promozione di una maggiore giustizia sociale.
La mattina delle elezioni l’ultimo nato dei Criscuolo si recò al seggio con una grande confusione in testa. Ancora incerto sul da farsi, si mise in fila in attesa del suo turno. Fra gli addetti al regolare svolgimento delle operazioni di voto non poté fare a meno di notare la presenza di due figuri dall’aspetto torvo e minaccioso posti a presidio delle cabine. Sordi alle proteste dei cittadini che rivendicavano il diritto alla segretezza del suffragio appena espresso, costoro strappavano dalle loro mani le schede prima che fossero deposte nelle urne, allo scopo di conoscerne le idee e di condizionare il risultato delle elezioni. A chi mostrava di resistere al controllo riservavano aggressività ed intimidazioni. Gennaro vide atterrare un vecchio solo per essersi opposto bonariamente a quel sopruso.
Di colpo capì cosa avrebbe dovuto fare. Fu il cuore a suggerirglielo, quel cuore ancora puro di bambino, quel cuore fedele che mai avrebbe accettato compromessi o tradimenti.
Rinserrò le braccia come per impedire a quei pensieri di disperdersi in un ambiente così contaminato e corrotto.
Sorrise all’idea di essere malmenato da quelle canaglie. Forse l’avrebbero spintonato, schiaffeggiato, purgato o portato in prigione a Poggioreale. Poco male! Gente mercenaria come quella non coltivava sogni, ideali o sentimenti, appagava per lo più la sete di potere ed inseguiva il desiderio di possedere unicamente beni materiali. Sarebbe occorsa ben misera cosa per indurla a recedere dai piani di vendetta: una pingue bustarella di papà e qualche vassoio di sfogliatelle ricce e frolle sarebbero state sufficienti a chiuderne le bocche ed a riempirne le mani. Molti individui assomigliavano a quella masnada. Non era stato così anche a scuola?
Quando toccò a lui, entrò in cabina ed espresse la propria volontà.
Uscì in fretta e, con una rapida mossa a sorpresa che spiazzò entrambi gli aguzzini, scagliò la propria scheda nell’urna esclamando soddisfatto:
“Centro! Ho segnato un gol!”
A testa alta si accostò agli sbirri che lo consideravano con occhi di fuoco per affrontarli.
Infine togliendosi il cappello, mettendosi sull’attenti e fissandoli in modo beffardo, con voce ferma fece la propria professione di fede:
“Io Criscuolo Gennaro di Piazza Dante, figlio di Natalina Guerreggiante indefessa massaia ed amatissima madre e di Rocco Criscuolo insigne pasticcere partenopeo, io Gennarino Criscuolo, nato a Napoli nel 1895 sotto il regno di Umberto e di Margherita di Savoia, io voto “monartico”. Nessuno osò ribattere e, tra lo stupore generale, tronfio d’orgoglio e finalmente pago di sé, imboccò l’uscio e si avviò verso casa.
Io voto “monartico” (fine)