Mazzella Tina

Io voto “monartico”. (2)

di Tina Mazzella

le nozze di re Vittorio Emanuele III ed Elena di Montenegro

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Di lì in avanti Gennarino si diede alla ricerca su giornali e riviste di articoli riguardanti la vita e le abitudini dei membri della famiglia reale. Lesse dei loro grandi possedimenti: palazzi ovunque, castelli, tenute di migliaia di ettari, panfili e treni riservati per viaggiare comodamente. Ammirò le fotografie dei Principini e ne imparò i nomi ripetendoseli mentalmente per non dimenticarli: Iolanda, Mafalda, Umberto, Giovanna e, molto più tardi, Maria.

re Vittorio Emanuel III, la regina Elena e i figli Jolanda, Giovanna, Mafalda ed Umberto, anno 1908. Manca Maria nata nel 1914

Apprese delle lunghe cavalcate, delle battute di caccia e di pesca praticate dal Re e dalla Regina e delle loro vacanze solitarie all’isola di Montecristo, dove Vittorio Emanuele III costruiva con le proprie mani un capanno per entrambi ed Elena cucinava piatti gustosi del suo paese d’origine.

Credette d’impazzire di gioia quando nel 1909 la Contessa Diana Di San Guido lo invitò con Titinella a trascorrere due settimane in Toscana a Marina di Cecina. Alla fine del pranzo nel domandare al padre il permesso di partire, parlò in fretta arrotolando le parole mentre il cuore batteva forte e la voce tremava un po’ dall’emozione. Dopo la richiesta ritenne doveroso aggiungere:

Voi non lo sapete papà, ma Marina di Cecina si trova vicino alla tenuta di San Rossone dove va a caccia il Re”.

“San Rossore Genna’! Si dice così! San Rossone non esiste!” corresse Rocco.

“Avete ragione papà! Voi avete sempre ragione! Vado vicino a San Rossore. Là, ci stanno i regnanti e tutte le loro cose monartiche”.

“Tutte le loro cose monarchiche vuoi dire? Monarchiche, impara! Quante volte te lo devo ripetere! Sei proprio una “capa tosta”! Ficcatelo bene in testa, tu mi devi ascoltare Genna’, se non vuoi fare la figura del fesso!”

“Sì, vi ascolto papà! Le cose “monartiche” avete detto”. Fece eco meccanicamente l’incorreggibile Gennarino con la testa rivolta immancabilmente altrove.

Il tempo passò velocemente ed arrivò il 1915, anno in cui anche l’Italia entrò nella prima guerra mondiale. Molti uomini furono richiamati al fronte. Treni carichi di soldati partirono dalle stazioni diretti al nord.

Domenica-del-Corriere-20-maggio-1915

Gennaro Criscuolo, riformato dal servizio di leva a causa della propria inidoneità fisica, si rodeva nel rimpianto di non poter prendere parte ad un’esperienza così esaltante, formativa e nobile. Si dava il caso che la Patria chiamasse e che lui non fosse in grado di rispondere signorsì.

Il suo rammarico si trasformò in ansietà incontenibile soprattutto quando fu informato dai giornali che anche il Re si era trasferito nei pressi di Udine nella zona in cui avvenivano i combattimenti. Con lo scorrere dei mesi l’irrequietezza che non gli concedeva attimi di tregua si trasformò in collera ed in palese ostilità nei confronti di nemici immaginari. Si trattava di un astio feroce pronto ad esplodere in ogni circostanza ed a colpire per un nonnulla tutti coloro che gli stavano vicino e che gli suggerivano moderazione e ragionevolezza nei giudizi e nel contempo tentavano di prospettargli i vantaggi non trascurabili di quell’esonero. Recriminava contro i suoi tre fratelli che, ritenuti abili alla guerra, erano stati arruolati nonostante la loro volontà contraria. Minacciava di fuggire, di abbandonare la famiglia per raggiungere il teatro di guerra e gettarsi nella mischia da volontario. Forse che qualcuno lo reputava incapace di prendere una decisione del genere?

Titinella appariva sempre più preoccupata per le folli rimostranze del nipote prediletto e, volendo prevenire la messa in atto di azioni sconsiderate da parte sua, si rivolse a Diana per chiederle consigli ed aiuto. Come sempre, la Contessa intervenne a soccorrerla e, grazie alle numerose e consolidate amicizie con persone di alto rango, riuscì a trovare una soluzione accettabile per quel giovanotto stravagante e testardo.

Gennaro Criscuolo fu assegnato all’ospedale di un paese della provincia di Udine in qualità di barelliere ed affidato alla vigilanza di un medico disposto ad occuparsi di lui, a seguirlo nel lavoro ed a frenarne le intemperanze.

immagine della I guerra mondiale attraverso le copetine della Domenica del Corriere

All’ospedale di P. fu costretto a confrontarsi con una realtà disumana e raccapricciante. Corpi mutilati, sfigurati e straziati arrivavano dai campi di battaglia con una frequenza allarmante, miseri resti di una gioventù svilita ed annientata.

Alcuni soldati giungevano ormai cadaveri; altri venivano trasportati in quella struttura unicamente per esalarvi l’ultimo respiro; altri ancora apparivano provati nel fisico e nella mente, spesso consapevoli di avere acquisito un’invalidità permanente.

Coloro che erano in grado di parlare maledicevano la guerra. Ricordavano scene terribili; raccontavano dell’inferno delle trincee, del fuoco tambureggiante che erano obbligati a sfidare pur di battersi contro i nemici per difendere i territori e la loro pelle, dei cannoneggiamenti, delle granate e delle insidiosissime pallottole vaganti, degli attacchi improvvisi con il gas, delle lotte con le baionette, dei massacri. Ripensavano al terrore di morire, al freddo, alla fame ed agli ordini insensati impartiti dai superiori ai quali era vietato opporsi.

Dappertutto si udivano lamenti, pianti, rantoli, imprecazioni ed invocazioni. Ogni cosa là dentro trasudava angoscia e dolore, una sofferenza palpabile che denunciava tutta l’impotenza degli uomini di fronte a quel flagello immane ed assurdo che incombeva inesorabile.

Gennaro ascoltava muto le parole dei feriti e si guardava intorno smarrito domandandosi se fosse proprio quella la guerra alla quale aveva desiderato partecipare con forza.

Quando trasportava gli infermi provenienti dal fronte, evitava di fissarne i volti nel timore di ravvisare in qualcuno di essi quello di uno dei suoi fratelli. Già, i suoi fratelli! Salvatore, Renato e Placido dov’erano in quel momento? Cosa facevano? Erano vivi o morti? S’interrogava tante volte in proposito, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.

 All’ospedale di P. si lavorava notte e giorno in condizioni di estrema precarietà. Il personale non badava alla stanchezza né alla totale disponibilità richiesta; ognuno si adoperava come poteva. Anche Gennaro faceva del proprio meglio per rendersi utile: eseguiva le disposizioni del Dottor Franza, collaborava volentieri con gli altri medici e con gli infermieri, trasportava malati e cadaveri, spingeva carrelli, scaricava provviste, lavava pavimenti e ripuliva servizi igienici.

Le esigenze erano molteplici; troppo spesso mancava il necessario per farvi fronte in maniera adeguata. Le bende e l’occorrente di prima necessità talvolta si rivelavano insufficienti; spesso i disinfettanti e i farmaci per lenire il dolore o per curare le ferite e le infezioni scarseggiavano; con la recrudescenza del conflitto neppure i lettini e le brande bastavano a contenere il numero crescente di persone bisognose di soccorso che affollavano le corsie.

Anche il vitto risultava scarso e poco nutriente. Gennaro non gradiva le esigue razioni di minestrina slavata e di polenta scondita o di altro somministrate dalla mensa dell’ospedale. Spinto dai morsi della fame, non appena se le trovava davanti le divorava senza assaporarle. Quando poi riusciva a prendere sonno, sognava immancabilmente i cibi squisiti della dispensa paterna: le “pastarelle”, i biscotti, le pizze Margherita, quelle pizze così speciali preparate per la prima volta da un cuoco geniale della cucina napoletana nel 1889 in onore della Regina Margherita guarnite con i colori della bandiera italiana, e, perché no, i fragranti panini imbottiti di tonno e “friarielli” ed i solenni piatti di pasta al pomodoro così gustosi da provocargli l’acquolina in bocca ed i crampi allo stomaco. Questo ed altro Gennarino Criscuolo sognava di notte mentre si struggeva dalla voglia di rivedere la sua terra lontana e di respirarne i profumi.

Ai genitori ed a Titinella non scriveva: la grande inimicizia con la penna ben nota in famiglia non si sarebbe mai placata. Del resto, il Dottor Franza, il suo angelo tutelare, nei ritagli di tempo pensava ad occuparsi di questa incombenza inviando sue notizie a Napoli nelle lettere che spediva con regolarità alla Contessa di San Guido.

Il gravoso impegno quotidiano non concedeva al barelliere partenopeo momenti di tregua tali da poter indugiare in piena libertà nelle vecchie fantasticherie o crogiolarsi con i soliti fantasmi della mente. Tuttavia egli non riusciva a nascondere a sé stesso la vera ragione che lo aveva spinto ad abbandonare la casa paterna per trasferirsi in Italia settentrionale in una delle zone limitrofe alle località presso le quali si svolgevano le operazioni belliche.

L’idea d’inseguire il suo idolo per vederlo finalmente di persona l’aveva indotto a compiere follie inaudite; perciò quelle motivazioni dovevano rimanere assolutamente segrete, pena il discredito totale nei suoi confronti da parte dell’intero parentado. Purtroppo l’ambito progetto così lungamente vagheggiato era ormai naufragato poiché durante i numerosi mesi di permanenza a P. Gennaro non aveva mai avuto la fortuna di intravedere il proprio eroe, quel Vittorio Emanuele di Savoia amato anche dai soldati i quali, lanciandosi all’assalto contro i nemici, ne gridavano il nome. Ciononostante lui non demordeva, non si sarebbe mai arreso. Mentre percorreva le vie del paese per sbrigare una qualche commissione, si ostinava a scrutare l’ambiente circostante cullandosi nella segreta speranza d’intercettare prima o poi il suo Re. Si diceva che questi si spostasse in automobile munito di cannocchiale e di macchina fotografica perché desiderava riprendere paesaggi, uomini ed eventi allo scopo di documentarsi e di lasciare tracce inequivocabili riguardanti le manovre militari e l’andamento della guerra.

Nell’approssimarsi del Natale del 1917 Gennaro Criscuolo ebbe modo di incontrare la Regina Elena e la Principessa Mafalda. Si erano presentate all’ospedale di P. per compiere una visita di cortesia ai militari ivi ricoverati in occasione delle imminenti festività. Con gli occhi lucidi di commozione avevano attraversato le corsie e si erano avvicinate ai letti dei malati regalando ad ognuno parole di conforto e gesti d’incoraggiamento e di solidarietà.

Entrambe vestivano con sobria eleganza e non portavano gioielli vistosi. La Regina, di alta statura e di bell’aspetto, incedeva sicura e si mostrava comprensiva ed affabile anche con il personale. La Principessa esile e minuta le camminava accanto e, quantunque ancora molto giovane, partecipava commossa al dolore dei feriti e delle vittime della guerra.

Quando il conflitto ebbe fine, Gennaro poté rientrare a Napoli. Anche i tre fratelli ritornarono a casa sani e salvi e la vita riprese il ritmo consueto.

 

[Io voto “monartico”. 2 continua]

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