di Giuseppe Mazzella
Giuseppe Cesare Tricoli nella sua “Monografia per le Isole del gruppo Ponziano”, così descrive gli inizi della colonizzazione borbonica avviata da Carlo III: – “…Con l’atto del 30 ottobre 1734 accordava ai coloni il terreno a migliorare, avendo due terzi del valore migliorato e tre anni di franchigia, per cui continuarsi la cultura in colonia. Essi si intrattennero per la estensione di suolo che circonda il porto, a partire dalla collina la Rotonda, alla intera vallata di S. Maria, sulla catena di colline da Frontone al ciglio di Luciarosa. Ciascuno individuo allo arrivo si ricoverava fra quelle tante antiche grotte, o pagliaie, che si costruiva, ed indicava al Castellano amministratore la porzione di terreno boscoso che intendeva occupare; era così connotata e notata nel registro…”.
In quegli anni il paesaggio agrario isolano è quasi intatto.
Dal tempo del basso impero romano, le isole sono abitate saltuariamente da ristretti numeri di monaci. A farla da padroni nei secoli bui del Medioevo sono i pirati che trovano nelle isole riparo dalle tempeste, sicuri nascondigli dove acquartierarsi e piombare da lì, imprevedibili, sulla costa laziale e campana per saccheggiare. A causa loro i benedettini debbono, nell’ 813, riparare sui colli di Arcinazzo, dove fondano una colonia che chiamano Ponza, tuttora esistente (1).
Vi tornano, poi, nel 1212 per abbandonarla definitivamente nel secolo XVI. Il paesaggio di Ponza, quindi, è quasi del tutto arborato, ad eccezione delle zone centrali dove abbondano costruzioni e ruderi a volte imponenti come il tempio ai Dioscuri, a Giancos o la villa di Augusto, nel sito oggi occupato dal cimitero.
Di una vegetazione folta e d’alto fusto si hanno tracce negli scrittori dell’antichità come Livio, Strabone, Plinio, Mela, Varrone e Cassio Dione.
Nel periodo repubblicano a S. Maria, oggi una delle spiagge più caratteristiche dell’isola, viene impiantato un cantiere per la costruzione di triremi, realizzate sul modello delle veloci navi cartaginesi, utilizzando come modello un relitto arenatosi sulle spiagge di Ostia.
Il che dimostra che l’isola offriva alberi d’alto fusto, necessari per la cantieristica navale. Parte dell’antica ricchezza arborea sopravvive ancora a Zannone, oggi annessa al Parco Nazionale del Circeo.
Numerose testimonianze rivelano che nel corso dei secoli si arrivava alle nostre isole per la raccolta del legnatico; molto attive non solo le popolazioni rivierasche laziali e campane, ma anche della Liguria.
L’ultima raccolta negli anni trenta del nostro secolo è effettuata da operai di Civita Castellana. In quella occasione sono raccolti 500 q.li di legname da operare, 500 q.li di legna da ardere, 500 q.li di carbone.
Prima della colonizzazione del 1734 Ponza era abitata solo saltuariamente nei mesi estivi da alcune famiglie provenienti da Torre del Greco e da Ischia, al seguito dei pescatori di corallo, allora diffusissimo in questo mare; la colonizzazione da Torre del Greco divenne stanziale solo nel 1772.
In pochi anni Ponza assume l’aspetto che ha conservato fino agli anni quaranta del nostro secolo, fino a quando cioè comincia il lento ma continuo abbandono dell’agricoltura. Fino ad allora il “paesaggio agrario era caratterizzato da una successione altimetrica di gradini che sfiancavano il pendìo della montagna, permettendo strisce orizzontali suscettibili di coltivazioni” (O. Baldacci).
Il terreno veniva spesso portato a spalla o a dorso d’asino e concimato con alghe messe a macerare per un anno.
Tali strisce di terreno, difeso dall’azione eolica e dalle acque piovane, venivano chiamate “catene”, contenute da muri a secco detti “parracine”. In ogni “catena” si sviluppavano, a filari semplici e doppi, a secondo della larghezza, le viti di uva bianca. Nello spazio lasciato libero si coltivavano grano e legumi (cicerchie, lenticchie, fave, piselli).
La scarsa piovosità complessiva e la necessità di poter disporre di acqua, indusse i contadini ad escogitare economici ma sicuri mezzi di conservazione idrica.
Il problema è risolto mediante i “pantani”, vani artificialmente scavati ai piedi di una parete verticale, con la base posta a circa un metro e mezzo al di sotto del livello esterno di ingresso. Le acque piovane vengono opportunamente convogliate in queste cavità ove si conservavano anche durante i secchi mesi estivi.
Negli orti, come nella piana di Santa Maria e della Padula, si utilizzano pozzi artesiani che raccolgono l’acqua marina filtrata da strati di terreno alluvionale.
Essendo scarso il letame a causa della carenza di bestiame, i contadini utilizzano, come già ricordato, le alghe, per lo più costituite da posidonie, che vengono raccolte, dopo le mareggiate, a Chiaia di Luna, a Giancos e a Sant’Antonio.
Il terreno, contenuto in piccoli spazi di dimensioni a volta veramente lillipuziani, non permetteva l’utilizzo di mezzi meccanici. Si ricorreva, allora, non a zappe o a vanghe, insufficienti a penetrare la dura zolla, ma al bidente.
La trasformazione orografica di Ponza è durata circa duecento anni. Non c’è un lembo di terreno che non sia stato terrazzato e coltivato. Le pietre raccolte una ad una e portate a mano o a dorso d’asino, con immane fatica, avvolgono in una sequenza mirabile le colline. Questo sistema ingegnoso permette la tenuta del terreno e il defluvio dell’acqua piovana, che, scorrendo nelle commessure delle “parracine” non causa smottamenti.
Le “parracine” di Ponza sono una sequenza ininterrotta di muraglioni a secco che danno all’insieme un aspetto di presepe napoletano, ordinato e pulito dove ogni “piettene ’i muntagne” (fazzoletto di terra) è coltivato e preservato gelosamente.
Oggi alcuni di questi “horti conclusi” sopravvivono in angoli solitari di Ponza, difesi da anziani contadini che vivono le giornate della vecchiaia curando con calmi gesti d’amore la loro ultima vigna.
Nel corso dei decenni il continuo frazionamento terriero porta a numerosissime pendenze giudiziarie aventi per oggetto sconfinamenti e divisioni ereditarie. Pendenze aggravate e moltiplicate dal recente boom turistico.
Le uve più coltivate per la vinificazione erano: la Castagna, la Pane, la Vernaccia, la Polombina e la Crementina. Quella da tavola è di recente introduzione.
Gli alberi presenti tradizionalmente a Ponza sono gli ulivi, gli albicocchi, i susini, i fichi, i meli e i meli cotogni, i melograni, le prugne, i mandorli e i gelsi.
Fra i prodotti dell’orto, oltre i legumi, vanno ricordate le patate, i pomodori, i carciofi. Continua, ma è ormai risibile, la coltivazione del grano tenero e il granturco maggengo (il più tardivo; la denominazione si riferisce al periodo della semina – NdR).
Hanno fatto la loro comparsa, ma solo di recente, avvolte in veri fortilizi di canne e fogli di cellophane per essere protette dal vento, piante di limoni, arance, mandarini e kiwi.
In coincidenza del lancio turistico, l’agricoltura negli ultimi trent’anni sta inesorabilmente scomparendo, anche se va rilevata una controtendenza negli ultimi tempi per Le Forna e Santa Maria.
I terrazzamenti, senza più cura alcuna, si stanno sfaldando e le “parracine” vengono giù. La natura sta rapidamente riguadagnando terreno, dando a Ponza un rinnovato manto verde.
Si estendono sempre più le ginestre, i fichi d’India e l’agave americana (qui introdotta nel 1600), la Genista ephedroides, chiamata “guastaccetta”, a causa della durezza del tronco; si diffondono inoltre la Calicotome spinosa detta “la spina”, l’assenzio (Artemisia absinthium), l’asparagus officinalis, la palma nana (Chamaerops humilis) e il lauro selvatico.
In primavera alcune colline sono completamente ricoperte di splendide orchidee di molteplici varietà. E la vita continua.
Pubblicato nella rivista ‘Civiltà Aurunca’, n. 22, anno IX, Gennaio-marzo 1993.
(1) – Nota di Redazione
La presenza di monaci benedettini esuli da Ponza come fulcro di una antica colonizzazione della zona degli Altipiani di Arcinazzo – attualmente chiamata Arcinazzo Romano (RM), ma fino al 1891 denominata “Ponza” – è tuttora irrisolta.
Per varie richieste al riguardo giunte in Redazione e lungi dal promettere una soluzione definitiva del dubbio, ci impegniamo a riportare quanto meno i punti base della questione in un prossimo articolo.