di Lino Catello Pagano
Sì, era solo un asino, e che asino! …cattivo come la peste, che non aveva paura di nessuno; se non ti arrivava a prendere con un calcio, ci riprovava la volta dopo con un morso; ma mio nonno Giovanni, lui riusciva a tenerlo a bada.
Una volta venivamo dal Fieno, io e mia sorella davanti e lui con l’asino dietro; eravamo arrivati dietro all’Hotel Chiaia di Luna ma mio nonno era rimasto indietro e veniva piano perché aveva l’asino con due barili di vino, e scendevano lentamente, lui davanti l’asino dietro.
Lui poi ci raccontò la sua versione: che era scivolato e l’asino voleva aiutarlo a tirare su. Fatto sta che si prese un morso al polso che lese i tendini della mano. Appena ripresosi dal dolore il mio povero nonno iniziò a chiamarmi; sentii la sua voce, dissi a mia sorella di andare a casa e di avvisare mamma che era successo qualcosa… si intuiva dal tono di voce del vecchio. Ritornai indietro correndo e quando arrivai a debita distanza quello che io vidi mi spaventò a morte, per il sangue che veniva fuori. La prima cosa che mi venne in mente fu di fermare l’emorragia; avevo appena finito il militare e avevo gli scarponi ai piedi, tolsi un laccio ad uno degli scarponi e legai forte il braccio del nonno, fermando il sangue.
Ero bianco come se mi avessero buttato in una vasca di varechina: presi per la cavezza l’asino, facendo bene attenzione e lo lasciai andare avanti. Aiutai mio nonno a proseguire verso casa, dove nel frattempo mia sorella aveva dato l’allarme. Arrivò dietro l’Hotel mio padre con il suo furgoncino, il nonno arrivò poco dopo. Quando lo vide, mio padre sbiancò per quello che vedeva; tolse la camicia che aveva appena indossato pulita, avvolse la mano che gocciolava sangue, e partì verso la Parata dove c’era lo studio del Dott. Sandolo. Il medico era stato informato via telefono da mia madre ed era pronto in studio; aspettava l’arrivo del furgone con mio nonno. Quando sfasciò il braccio gli disse: – Caro Giovanni vediamo come possiamo salvarti questa mano.
La mano restò per sempre offesa e non potette più aprirla, perché la ferita aveva toccato i tendini.Ma mentre il nonno veniva medicato, io avevo un’altra incombenza grande: quella di scaricare l’asino e ricoverarlo nella sua grotta. Arrivai a casa del nonno, presi la corda della cavezza e la feci passare nell’occhiello che aveva nel muro e tirai, fino a portare la cavezza rasente al muro, così ero sicuro che non potesse mordermi. Facendo ben attenzione di passare a debita distanza dai suoi zoccoli, che non mi colpisse con un calcio. Nel frattempo era arrivata mia mamma, povera donna, anche lei spaventata a morte; controllava che non mi succedesse niente. Era arrivata armata di un bastone bello grosso… Io scaricai i barili di vino e li misi nel magazzino di casa, tolsi la sella e la soma e le portai nel loro ripostiglio. Ma adesso veniva il bello: dovevo portare l’asino nella stalla e dovevo entrarci per primo, perché lì c’era l’occhio dove veniva passata la cavezza. Mentre lo tiravo piano verso il muro, con mia madre che mi faceva da guardia del corpo, diedi a bere all’assetato: si bevve sei secchi d’acqua, che allora si tiravano a mano dal pozzo. Andò tutto bene e riuscii a sistemare la bestia feroce senza problemi.
Facemmo rientro a casa e arrivarono allo stesso tempo, mio padre e il nonno con la mano fasciata e ben 82 punti di sutura …e ci era pure andata bene!
Ma ora, visto che il nonno era stato messo KO da ’u ciuccio, a chi toccava l’incombenza di occuparsene, se non a n’atu ciuccio che ero io? Non conoscevo per niente l’animale, e lo temevo per quello che aveva fatto al povero vecchio nonno, ma toccava a me prendere in mano la situazione, solo che ero terrorizzato e lui l’aveva percepito… Facevo molta attenzione nel tirarlo fuori e rimetterlo nella stalla – doveva pur mangiare! – e per farlo brucare lo portavo nella campagna intorno a casa. Ma una mattina mi venne la brillante idea di portarlo ’ngopp’ a massaria, lì di spazio e di erba da brucare ne avrebbe avuta tanta…
Sul posto avevamo paletto di alluminio, come un grosso chiodo, spesso e consistente; lo piantavamo nel terreno lasciando la corda lunga, così che l’asino poteva muoversi e pascolare. Lo portai nell’ultimo pezzo di terra, quasi dietro all’albergo ed risalii alla catena di sopra a mettere il paletto per terra per poterlo legare. Era una fredda mattinata di novembre e avevo messo un paio di maglioni e la giacca della Marina Militare, che era bella spessa pesante e non passava il freddo
…Ma passarono i denti dell’asino! Io ero lì che piantavo il chiodo quando il bastardo fece un salto da dove l’avevo lasciato fin dove ero io con il chiodo in mano. Mi prese con i denti il braccio sinistro – nella sua parte superiore dove il muscolo è consistente – e affondò bene i denti… Sentii un dolore tale! Disperato, con il chiodo che avevo nella mano destra gli sferrai un colpo in mezzo agli occhi! Mi lasciò subito! Doveva aveva sentito male pure lui, malgrado la proverbiale pell’i ciuccie..! Si allontanò da me e io ebbi il tempo di guardare che danno mi aveva fatto: giacca e maglioni erano tutti lacerati, ma il braccio aveva retto… Avevo solo la forma della sua dentatura sulla mia pelle e un livido nero che me lo sono portato dietro per mesi. Solo allora capivo cosa volesse dire quando andavamo a scuola, e il maestro ti prendeva a mano piena sul braccio e ti faceva vedere le stelle: era ’u muorz’i ciuccio: io l’avevo provato dal diretto titolare! Riuscii a piantare il chiodo nel terreno e a legarci l’asino e andai a casa da mia madre. Quando mi vide, mio padre voleva andare con il fucile ad ucciderlo! Ma mia mamma disse: – …E poi il nonno come farà!? – allora ci ripensarono. Ma la promessa era stata fatta ed era che qualora – ’a ccà a cient’anne! – fosse passato a miglior vita il nonno, l’asino l’avrebbero venduto.
E così fu, dopo anni e dopo altri danni che aveva fatto… L’ultimo in ordine di tempo, di quando mio nonno, dopo parecchi mesi, riprese ad andare in campagna sempre con l’asino. Un giorno Vincenzo Bosso, detto Cianfanfere per la sua menomazione fisica, gli chiese l’asino in prestito come aveva fatto altre volte quando doveva portarsi del vino dal Fieno a casa sua sulla Dragonara. Venne a prenderselo che era mattina presto, ma mezz’ora dopo mio nonno lo vide tornare con la bestia alla cavezza. Disse a mio nonno: – Giua’ t’aggie purtat’aret’ ’u ciuccie… Menu male ca ce steve luntane… m’ha date ’nu cauce che m’ha fatte vula’ pe’ terra.
Vicienzo non era un gigante, era piuttosto esile; veramente bastava che l’asino lo sfiorasse con uno zoccolo che volava via!
Vincenzo sconfortato disse al nonno: Mo’ dumande a Giustine si me dà ’u ciuccie suie.
Mio nonno gli disse: – No, vengo io con te e ti porto io il vino fino a casa – e così fece.
Alla scomparsa del nonno, mio padre decise di dare via la belva. Io ero partito, stavo imbarcato sulla ‘Michelangelo’ e seppi dell’ultima scompiglio creato dall’asino pazzo.
Era venuto a Ponza un tizio di Napoli per acquistare animali sull’isola. Fu l’occasione per vendere Gasparre. Il tizio venne, si prese la bestia e la portò via la sera, così era pronto il mattino seguente ad imbarcarsi con l’animale. Lo legò giù alla banchina nuova dove ora ci sono i bidoni della spazzatura. Si era in estate. Liliana al suo chiosco vendeva pizze e ai tavolini aveva parecchia gente che mangiava… L’asino era stato legato male – o in qualche modo si slegò – e si avviò lungo i giardinetti attratto dall’odore del cibo. Ci fu un fuggi fuggi generale… di cui l’asino approfittò per mangiarsi tutto quello che poteva. La povera Rosaria corse fino a casa dei miei, chiamò mio padre: – Carminu’, curre! …fa ambress ca ’u ciuccie se sta mangiann’ i pizze e tutt’u riest… P’ammore ’i Die fa ambresse..! Mio padre si precipitò a Sant’Antonio e trovò l’asino che aveva ripulito tutti i tavolini con le pizze… aveva fatto un disastro! Fece appena in tempo a prendere la cavezza che quello incominciò a scalciare, perché veniva portato via dal cibo… Fu riportato dove l’aveva lasciato il nuovo proprietario, che dovette anche pagare i danni a Liliana. Ho saputo poi che per metterlo sulla nave parecchi rischiarono di prendersi calci…
Così finì la storia dell’asino Gasparre, che aveva il nome di Magio ma di magico aveva solo i calci e i morsi.