segnalato dalla Redazione, da la Repubblica
Guerrieri – @ Getty Image (dall’articolo di Repubblica)
Dove sono ormai i guerrieri d’Europa?
di Antonio Scurati – da la Repubblica del 4 marzo 2025
Dopo aver plasmato per secoli il continente sui campi di battaglia, tra le macerie dei due conflitti mondiali abbiamo costruito ottant’anni di pace, welfare, benessere.
Non siamo disposti a tornare indietro. A meno che la nostra civiltà non sia a rischio
Chi combatterà le nostre prossime guerre? Anzi, meglio: chi combatterà al nostro posto le nostre prossime guerre? L’interrogativo aleggiava su di noi da molto tempo – ignorato, respinto, rimosso – ma è divenuto assillante dopo il tradimento di Donald Trump. Perché su questo punto non debbono esserci dubbi: il 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America è un traditore degli amici, degli alleati e, soprattutto, dei valori secolari della sua nazione.
Una piazza per l’Europa
di Michele Serra 27 Febbraio 2025
Si discute oramai quotidianamente della necessità di una “difesa comune europea”, di aumentare gli investimenti in spese militari, perfino della possibilità che vengano schierati i nostri soldati lungo il confine insanguinato tra Russia e Ucraina. Si dibattono i problemi che ostacolano il raggiungimento di una autonomia, se non di una impossibile indipendenza, nella difesa militare dell’Europa da eventuali, future aggressioni, purtroppo sempre più verosimili (e già in atto). Gli ostacoli sono tanti, enormi e diversi: sono di natura militare-industriale, economica, tecnologica, di natura strategica, sono, soprattutto, di natura politica.
Dite qualcosa di europeo!
di Michele Serra 21 Febbraio 2025
Questo dibattito, pur necessario, si ostina però a ignorare la principale carenza europea rispetto alla possibilità di combattere autonomamente una guerra difensiva: la mancanza di guerrieri. Come, purtroppo, le recenti carneficine ucraine (e mediorientali) hanno tragicamente dimostrato, anche le guerre tecnologicamente più evolute necessitano di guerrieri. E noi europei d’Occidente non li abbiamo, non lo siamo, non lo siamo più.
Non mi riferisco qui soltanto alla penuria di soldati operativi, pur grave: la difesa del confine ucraino richiederebbe il dispiegamento di 200 mila soldati ma la Ue sarebbe in grado di schierarne soltanto 60 mila su tre turni da 20 mila. Mi riferisco alla svanita combattività di popoli da otto decenni pacificati, demograficamente invecchiati e profondamente gentrificati. Per fare la guerra, anche soltanto una guerra difensiva, c’è bisogno di armi adeguate ma resta, ostinato, intrattabile, terribile, anche il bisogno di giovani uomini (e di donne, se volete) capaci, pronti e disposti ad usarle. Vale a dire di uomini risoluti a uccidere e a morire. Il dato utile a misurare la nostra inettitudine a questo compito non è quello degli organici nominali dei nostri eserciti. È il conto dei morti: stime attendibili calcolano che nei tre anni di conflitto in Ucraina siano caduti circa 300 mila combattenti e ne siano rimasti feriti, spesso gravemente, tre volte tanti. Quasi l’intera popolazione di Milano falciata dalla guerra. Riuscite a immaginarlo? No, non riusciamo nemmeno a immaginarlo. Va addirittura al di là della nostra immaginazione proprio perché non siamo più dei guerrieri. Che fine hanno fatto tutti quei soldati? Se lo chiedeva James Sheehan in un libro nel quale indagava la trasformazione dell’Europa da devastato campo di battaglia in società prospera e pacifica che ha dirottato tutte le sue risorse materiali e morali dal warfare al welfare. La formulazione più esatta della domanda suonerebbe, però, così: che fine hanno fatto tutti quei guerrieri?
“Io ci sarò”, centinaia di commenti all’appello per l’Europa lanciato da Michele Serra
di Piera Matteucci 28 Febbraio 2025
Nella nostra millenaria vicenda, la guerra non è stata, infatti, soltanto un mestiere, una tragica costante, uno strumento di potere, è stata l’arte (il complesso di tecniche, metodi, invenzioni e talenti) che ha mosso la storia d’Europa e, all’unisono, la narrativa che ha definito l’identità degli europei. Nei secoli questa nostra terra è stato uno scoglio euroasiatico popolato di guerrieri feroci, formidabili, orgogliosi e vittoriosi. Di tutte le invenzioni europee che hanno plasmato il mondo moderno, quelle in campo bellico – tecnologiche, tattiche e culturali – sono state probabilmente le più efficaci e influenti. Ma la guerra dei nostri antenati europei non è stato solo il dominio della forza, è stato anche il luogo di genesi del senso: da Maratona al Piave gli europei hanno combattuto (e vissuto) fedeli a come si aspettavano che la loro battaglia (e vita) sarebbe stata narrata. Da Omero a Ernst Jünger la nostra civiltà ha pensato il combattimento armato frontale, micidiale e decisivo addirittura come proprio fondamento perché nella guerra eroica ha trovato l’esperienza plenaria, l’accadimento fatidico, il momento della verità nel quale si sono generate le forme della politica, i valori della società, si sono decisi i destini individuali e collettivi.
L’apocalisse in due tempi delle guerre mondiali ha estirpato questa tradizione millenaria. La rottura con essa è stata a sua volta radicale e violenta. Già con la annichilente esperienza delle trincee nella Grande guerra, per la prima volta in millenni di storia, i concetti di gloria, onore, coraggio persero ogni significato quando l’uomo europeo giunse alla conclusione che non c’era niente al mondo per cui valesse la pena di morire. Improvvisamente, come scrisse Blaise Cendrars, «Dio era assente dai campi di battaglia».
Nacque allora il romanzo pacifista, una novità assoluta nel panorama delle creazioni umane. L’ecatombe della Seconda guerra mondiale, scatenata dal rigurgito bellicista dei fascismi, scavò ancora più in profondità e in modo definitivo questo fossato che ci divide dalla nostra storia atavica. Ne conseguì un mutamento addirittura antropologico, al livello profondo delle strutture dell’esperienza umana e dell’organizzazione sociale. La rivelazione ultima dell’insensatezza bellica impresse nella nostra coscienza il marchio di una riluttanza ironica, di un malinconico disincanto del mondo.
La deriva ungherese
Massimo Giannini 27 Aprile 2024
Non fu solo decadenza. Fu un balzo di civilizzazione. Le grandi conquiste europee, e solo europee, del secondo dopoguerra (il diritto alla salute e all’istruzione per tutti, il superamento di maschilismo e razzismo, lo sviluppo di una coscienza pacifista e ambientalista, solo per citarne alcune), scandiscono questo nostro avanzare regressivo verso forme di vita che estendano a ogni età le cure amorevoli riservate all’infanzia o, addirittura, i privilegi embrionali di protezione e nutrimento. Questa è la civiltà: il grande utero esterno. È così che si diventa umani: lasciando fuori la durezza ma mettendola di sentinella alla porta.
Ripudiando la guerra, non siamo solo diventati imbelli, siamo diventati migliori. Ce lo ricorda e conferma l’osceno spettacolo della spregevole brutalità esibito in queste ore in mondovisione dal Presidente degli Stati Uniti d’America. Al suo cospetto viviamo un momento di alta chiarificazione esistenziale, ritroviamo la fierezza di essere europei, di non essere come lui.
Resta il fatto che non siamo più dei guerrieri. Il pacifismo è stata una rivoluzione culturale, e va meditato, rispettato ma non potrà mai diventare una piattaforma politica. Per tutti questi motivi, l’imminente ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, acquisito una volta e per tutte il ripudio di ogni guerra aggressiva, nazionalista, imperialista, dovrebbe essere un passaggio cruciale affinché l’Europa ritrovi lo spirito combattivo e, con esso, il senso della lotta. Fummo allora, noi europei d’occidente, per l’ultima volta guerrieri. La Resistenza antifascista ci ricorda perché ripudiammo la guerra ma ci insegna anche le ragioni per prepararci, se necessario, a combatterla.
[Antonio Scurati, da la Repubblica del 4 marzo 2025]
