Racconti

Viaggio in Marocco (10). Grand Hotel Mamounia, Marrakesh

di Marigiò Stabile

Non avrei dovuto partecipare alla selezione.
Questa mattina sono uscita di casa presto, dopo aver preparato la colazione per i miei fratelli. Sulla porta mi sono fermata un momento a sistemare le pieghe del velo, e ho colto nello sguardo di mia madre preoccupazione, e un affettuoso rimprovero. E’ stanca, da qualche tempo trascina le ciabatte quando cammina. Ho un nodo allo stomaco ogni volta che penso alla fatica della sua vita senza illusioni.
Dalla camera da letto sento russare mio padre: anche stanotte è tornato tardi, sfinito dal lavoro al mercato, stordito dall’erba fumata nel narghilè al termine della giornata.

Da bambina andavo qualche volta a trovarlo ma scappavo subito via dalla bottega scura dove ogni giorno macella centinaia di polli. Mi facevano paura gli stecchi gialli squamosi con tre dita in fondo, sparsi sul pavimento nero, le zampe di pollo, disseminate ovunque come dopo il passaggio di un cane affamato. Mi terrorizzavano le mani insanguinate di mio padre che versavano nel canale di scolo la poltiglia rossa delle interiora, mi facevano paura i polli vivi stipati nella gabbia. Mi faceva paura lui, quando agitava il pugno chiuso davanti al viso di mia madre, quando alzava la voce per sfidare i miei fratelli maggiori…

Fuori dalla porta raddrizzo le spalle e la testa, esco nella via mentre risuona il richiamo dell’alba. A quest’ora Marrakesh è silenziosa, le botteghe sono ancora chiuse, in strada ci sono solo i mendicanti e i ragazzi con i carrelli che trasportano le bottiglie dell’acqua e i cesti del pane ai riad. Marrakesh si prepara con lentezza ad aprire la sua vetrina ai turisti, io per la prima volta mi preparo a cercare un lasciapassare per un futuro di indipendenza.

Appuntamento nella sala conferenze dell’Hotel Mamounia: fuori dalla medina, la città moderna, la solita confusione di autobus e taxi.
Entro dal grande cancello, attraverso il giardino, mi infilo nella porta girevole e mi confondo, è la mia prima volta qui. Un giro completo, poi riesco a entrare.
Alzo gli occhi: la luce del giorno scende dal soffitto vetrato e fa luccicare il pavimento appena lavato. Respiro, e mi perdo nel grande spazio. Lo spazio e la luce che nella mia casa angusta ogni giorno mi mancano. Vedo il gruppo degli altri candidati, molte donne e qualche ragazzo, ne conosco alcuni, vicini di casa nella medina: li saluto, scambiamo qualche parola emozionata.
Arriva una signora magra, l’abito blu lascia scoperte le braccia e le gambe, tacchi alti, non porta il velo. Dispone dei fogli su un grande tavolo, e senza guardarmi negli occhi, senza un saluto mi porge una scheda da compilare:
Nome: Aisha Ben Brahim
Data di nascita: 10 maggio 2008
Nazionalità: marocchina
Religione: musulmana
Titolo di studio: College
Lingue conosciute: Darija, Modern Standard Arabic, Francese.

Consegno la scheda: di nuovo penso che non avrei dovuto venire qui. Ora non starei in piedi, rigida con un dolore tra le scapole e le mani sudate, davanti a questo chef francese alto e grosso che indossa una casacca bianca coi bottoni dorati. Mi lancia uno sguardo distratto, sento il suo disprezzo per me, aspirante cuoca, marocchina e donna.
Modalità dell’esame: oggi una prova pratica, acquisti al mercato in autonomia e preparazione di un piatto della tradizione nella cucina dell’hotel. Domattina dopo l’ora della preghiera prova scritta e colloquio individuale. Un assistente mi consegna un grembiule nero e una grande sporta di paglia, qualche soldo per gli acquisti. Parto insieme con gli altri, ci disperdiamo in strada.

Ecco il mercato dove vado sempre, Al Mellah, nel quartiere ebraico: davanti alla porta sul selciato polveroso è già seduta Suad la mendicante, nel suo abito sempre pulito nonostante la sporcizia intorno. La saluto, scavalco i gradini rotti davanti all’ingresso, scanso due uomini che escono trasportando una gabbia vuota sporca di escrementi e piume di pollo. Saluto i ragazzi che lavorano la pasta fillo, sbattono la pasta collosa che stanno preparando sui coperti delle grandi pentole che sfiatano vapore.
Ammu Kais mi chiama dalla bottega delle spezie, che mi incanta coi suoi profumi. Lui mi offre sempre qualcosa: quando ero bambina mi regalava le caramelle di zucchero, oggi ha in mano un piccolo vaso, il rossetto del deserto. Mi raccomanda di metterne poco, il trucco delle ragazze dev’essere discreto, altrimenti lo sguardo degli uomini si infiamma…
Mi accosto al banco dove sono esposte le verdure, accatastate un po’ alla rinfusa; qui non abbiamo la necessità di attirare i turisti con piramidi di arance e mele, noi gente della medina ci preoccupiamo solo del prezzo. Comincio a riempire i sacchetti e li passo al mercante perché li pesi, spuntando mentalmente gli ingredienti necessari al couscous che penso di preparare.
Colgo con la coda dell’occhio uno sguardo penetrante, mi giro e sento il rossore salirmi alle guance. È lui, Abdul, il garzone del banco della frutta che ritorna da una commissione. Mi fissa intensamente, sa che mi piace e che nel chiuso della mia camera la sera mi addormento pensando a lui. Non abbiamo mai potuto parlare a lungo, ma ogni tanto mi fa avere dei messaggi sul cellulare di mia cugina. Lei me li legge e li cancella subito, è una ragazza della mia età, felice di aiutarmi.
Abdul si avvicina, infila un cespo di insalata nella sporta di una cliente e mi sfiora una spalla come per caso. Mi guarda ancora, con occhi ardenti. Abbasso i miei, non devo far notare la mia emozione.
Prendo la sporta ormai piena, pago la spesa e mi precipito fuori, nella strada trafficata della Mellah. Mi giro ancora una volta verso il mercato: ora Abdul sta uscendo con un carrello di ceste di frutta, lo vedo allontanarsi verso il furgone, non si è voltato a guardarmi.

Mi avvio verso l’Hotel Mamounia, porto le verdure in cucina e mi metto al lavoro : affetto con furia le cipolle, mi scortico le dita con il pelapatate, metto a cuocere le verdure. Poi lavo la semola, la sbriciolo tra le mani, la passo nella pentola, accendo il fuoco e sorveglio il vapore. Controllo il tremore delle mani, seguo passo per passo le fasi della ricetta che ho imparato da mia madre finché il couscous non è cotto.
Mi brucio le mani nel ritirare la pentola dal fuoco, per poco non la rovescio. Alla fine, come Allah vuole, tutto è pronto: dispongo il couscous nel piatto di portata e disegno con le verdure stufate una stella con al centro una cipolla tagliata in forma di fiore.
Arriva in cucina lo chef , annusa, assaggia, valuta con occhio critico, poi si allontana senza una parola. Gli assistenti ci accompagnano in sala, ci consegnano le schede per la prova di domani. Finito, possiamo tornare a casa.
Esco dall’hotel e mi avvio: la tensione si allenta, ora sento una grande stanchezza. Entro nel nostro vicolo, cerco in tasca la chiave, apro la porta di casa.
Mio padre non è ancora tornato, mia madre è in cucina, la sento lavorare inquieta. Lascio in camera le mie cose, tolgo il velo e torno ad aiutarla, poi ceniamo insieme. Prima che tornino gli uomini, mi ritiro nella mia stanza e vado a letto.

Dopo un lungo sonno, pesante e senza sogni, mi sveglia di nuovo il richiamo dell’alba.
Mi alzo, vado in cucina, metto sul fuoco l’acqua per il tè, affetto il pane, metto nelle ciotole il formaggio e le olive. Alle mie spalle sento i passi di mia madre, mi abbraccia da dietro silenziosa, mi sfiora i capelli con un bacio.
Vado in bagno, mi lavo, lego i capelli in una lunga treccia, li copro col velo. Passo un dito nel rossetto e mi coloro un poco le labbra e le guance, un filo di matita lungo le ciglia. Sono pronta.
Apro la porta, esco nell’aria fresca del mattino. Prendo un lungo respiro, è ora. A testa alta mi avvio verso la sala conferenze del Mamounia.

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