di Biagio Vitiello
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Fino agli anni ’50 le isole di Ponza e Palmarola erano tutte coltivate perlopiù a vigna.
Mi diceva mio padre che a Ponza si produceva tanto vino che veniva esportato; a tal proposito ricordava che i burchielle, bastimenti di legno, ormeggiavano sotto le cantine del Fieno per caricare il vino ivi prodotto.
Dagli anni ’50 in poi, l’agricoltura ponzese ha subito un inarrestabile declino, fino quasi a scomparire. I terrazzamenti non sono stati più coltivati né curati e questo ha determinato l’estendersi della macchia mediterranea e dei rovi, con perdita delle parracine e conseguente accentuazione del dissesto idrogeologico.
Alla fine di quella agricoltura – insieme al declino della pesca – come fonti di sostentamento e reddito dell’isola, è subentrato il turismo.
Bisogna ricordare che a Ponza esistono, da lungo tempo, gli appassionati del vitigno, e ognuno di questi fa il vino per consumo proprio e degli amici, con risultati diversi da persona a persona, anche in relazione al terreno o alla esposizione della vigna.
Vigneti sopra Giancos
Con altri intendimenti – per finalità amatoriali ma anche commerciali – bisogna ricordare che più di trenta anni fa, il primo viticoltore che si è stabilito a Ponza è stato Maurizio Puschen (ora Azienda Agricola Marisa Taffuri); seguito dal dott. Vittorio Emanuele (Antiche Cantine Migliaccio), da Santarelli de Il Casale del Giglio che ha acquisito diversi terreni siti soprattutto in località “sopra gli Scotti” e il giovane imprenditore Giuseppe Andreozzi.
Anche io, da quando sono in pensione, mi diletto anche a fare “il piccolo agricoltore”, mi diverto a coltivare un piccolo vigneto di uve tipiche della nostra isola, oltre ad allevare animali da cortile: galline per la produzione di uova, conigli, piccioni, polli ecc.
Mi diverto anche coltivare vari ortaggi, ultimamente ho piantato i lampascioni, che sono una novità per Ponza, poi proverò anche i topinabur. Altra cosa che penso di fare è la cura e la raccolta dei tantissimi fichidindia che ho nei miei terreni; eventualmente se ne potrebbero commerciare, oltre ai frutti, le marmellate e le altri parti commestibili della pianta.
Da cosa nasce cosa. Chissà poi… Forse se si potesse aprire una nuova era dell’agricoltura ponzese, anche con forme associative, che potrebbe dare sbocchi di interesse e lavorativi alle nuove generazioni. Ma ci sarebbero necessari l’impulso e il supporto di chi amministra la nostra isola, cosa che non è mai successo.
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Schede sintetiche (a cura della Redazione – estratti da Wikipedia, ibidem)
Muscari comosum è una pianta erbacea della famiglia delle Liliaceae, diffusa nelle regioni mediterranee. Il suo bulbo è conosciuto come lampascione, detto anche cipolla canina, cipolletta calabrese, cipollaccio col fiocco.
Il bulbo, ricco di sali minerali e che cresce a 12-20 cm circa nel sottosuolo, è simile a una piccola cipolla di sapore amarognolo ed è consumato specialmente nell’Italia meridionale, particolarmente in Basilicata, Puglia e Calabria.
Il lampascione si naturalizza facilmente e può diventare invasivo. Si è diffuso verso nord rispetto alla sua distribuzione originaria, comparendo ad esempio nelle isole britanniche nel XVI secolo
Impieghi culinari. Il lampascione, nella cucina tradizionale lucana, pugliese e calabrese, si prepara dopo aver ripulito i singoli bulbi di ogni traccia di terra e di radici, e dopo averli tenuti in acqua per diverse ore dopo una preventiva rapida bollitura per consentir loro di perdere il liquido amaro che caratterizza il loro sapore.
I bulbi vanno cucinati interi, ma dopo averli intaccati nella parte inferiore (quella più larga) con un coltello, in maniera diversa a seconda della preparazione, che può essere in padella semplice, in padella con le uova o sott’olio.
Topinambur
Helianthus tuberosus, noto con i nomi volgari di topinambur, carciofo di Gerusalemme, girasole del Canada o elianto tuberoso, è una pianta della famiglia delle Asteraceae, genere Helianthus con infiorescenza a capolino.
È una pianta erbacea perenne con tubero sotterraneo originaria del continente americano. Il tubero è usato in gastronomia ed è noto con il nome di topinambùr, presumibilmente derivato dalla francesizzazione del nome della tribù sudamericana dei Tupinamba, alcuni membri della quale furono presentati a Parigi nel 1613. I venditori della pianta sfruttarono il grande scalpore suscitato da questo evento rinominando il prodotto, proveniente in realtà dal Canada, per aggiungere del fascino esotico.
Etimologia. Il nome generico (Helianthus) deriva da due parole greche: “helios” (sole) e “anthos” (fiore) in riferimento alla tendenza di alcune piante di questo genere a girare sempre il capolino verso il sole, nota come eliotropismo. L’epiteto specifico (tuberosus) indica una pianta perenne il cui organo di sopravvivenza è un tubero.
Cucina. I tuberi di topinambur si estraggono dal terreno in inverno, sono molto nutrienti e la loro cottura è simile a quella delle patate, con un sapore che ricorda il carciofo. Possono essere consumati anche crudi con sale e pepe. Nella cucina piemontese sono tipici con la bagna càuda, con la fonduta o anche trifolati, mentre in quella siciliana trovano un uso sporadico nella farcitura di focacce.
Sono riferiti in casi di sensibilità individuale all’uso alimentare, con modesti disturbi gastro-intestinali (iperperistalsi, diarrea)
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