segnalato dalla Redazione, l’editoriale di Ezio Mauro su la Repubblica di ieri
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Il commento
Dalla pace giusta alla pace imperiale
di Ezio Mauro – Da la Repubblica del 16 febbraio 2025
Il momento che il mondo attendeva dal profondo del caos in cui stava precipitando sembra infine arrivato: tregua in Medioriente, fragile e precaria ma utile ad avviare la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas con un graduale ritiro delle truppe israeliane dalla striscia di Gaza, e accordo per iniziare un negoziato che metta fine alla guerra tra la Russia e l’Ucraina. Al centro del tentativo di ristabilire un sistema di governo del pianeta, ormai fuori controllo, c’è l’energia rivoluzionaria di Donald Trump che si propone di riscrivere l’ordine mondiale, mentre prepara una ristrutturazione della democrazia liberale uscita vittoriosa dalle battaglie del Novecento per arenarsi proprio qui, nel Paese della libertà dove il secolo sta cambiando pelle, diventando autoritario. Anche la pace che si sta faticosamente preparando sarà figlia di questa riduzione degli spazi democratici, per lasciare posto alla definitiva supremazia del governo eletto dal popolo, che non accetta controlli e condizionamenti e si trasforma in potere sovrano, alle soglie dell’assoluto. Il giorno in cui verrà firmata, ci accorgeremo che sarà una pace imperiale, non democratica. Non si cerca infatti di ristabilire i principi liberali di convivenza che hanno retto il difficile equilibrio mondiale fin qui. Non il riguardo per il diritto e peri diritti, né il rispetto della sovranità degli Stati e dell’autonomia dei popoli nelle loro scelte di sistema, né il rifiuto della forza come mezzo di risoluzione dei contrasti.
Non il riconoscimento del ruolo degli istituti internazionali e sovranazionali di controllo e di garanzia, né la considerazione della rete costituzionale e istituzionale di tutela protesa dalla generazione dei padri per la sicurezza del futuro di figli e nipoti.
Tutto questo meccanismo ideale e materiale di salvaguardia è saltato con l’invasione russa dell’Ucraina, tre anni fa, che ha cortocircuitato il criterio universale di distinzione tra il bene e il male, annullando il codice condiviso che consentiva la convivenza e la cooperazione tra sistemi diversi. La logica e la morale vorrebbero evidentemente che in qualunque trattativa si partisse da qui, dal vulnus ancora aperto dell’invasione russa di un Paese libero, un sopruso politico di cui tener conto in ogni minuto del negoziato, e che va sanato.
Come se venisse da Marte, in anticipo sulla colonizzazione spaziale di Musk, Trump invece tace ostentatamente sull’occupazione russa dell’Ucraina, perché per lui la storia incomincia con il suo avvento al potere che schiude la nuova età dell’oro, cancella il passato e guarda soltanto al futuro. Tutti gli ideali che hanno nutrito la democrazia americana, le sue promesse, gli impegni e i piani dell’alleanza occidentale non contano più, sono annullati, riassunti e sostituiti dalla povertà titanica di una sola parola, great come l’America che verrà. La democrazia liberale è scaduta come un vecchio medicinale e va superata, proprio perché — questo è il concetto rivoluzionario — è ormai di ostacolo al recupero di potenza dello Stato, attraverso quel senso del limite che si traduce in una costrizione di lacci e lacciuoli utili solo a frenare la potestà di comando del governo: che invece è il momento di liberare fino in fondo. È una razionalità già autoritaria, dentro il Paese con la stretta alle politiche sociali e ai diritti individuali, e fuori, con le pretese territoriali su Stati sovrani, e la monetizzazione degli aiuti agli alleati, come se la solidarietà democratica fosse a gettone, secondo tariffa: segue ricevuta. Ma soprattutto è una mentalità imperiale, che di per sé non prevede alleanze ma le disarticola, mentre fuoriesce dalla cultura democratica preparando l’autocrazia.
Sovraordinato e insofferente del multilateralismo, il nuovo egemone tratta solo coi suoi pari, in una logica marziana dove le convenienze soppiantano i principi. La presenza di altri due imperatori in Russia e in Cina semplifica la visione, riassume la complessità del mondo che disorienta il cittadino nella globalizzazione, lo incoraggia a delegare la politica come un affare di vertice invece di frequentarla, trasformandosi in spettatore di un gioco tra giganti, a cui deve soltanto confermare ogni quattro anni una vibrazione di consenso: il transfert è compiuto. Così facendo Trump reinsedia inevitabilmente Putin come interlocutore obbligato, anzi naturale, mentre l’amnesia dell’invasione diventa amnistia della politica, prima ancora del giudizio.
Nell’ossessione dei dazi imposti alla Cina ma anche agli alleati, l’unico che non paga dazio per l’aggressione all’Ucraina è il Cremlino. Così Est e Ovest tornano punti cardinali fissi, ma in un mondo capovolto. È Trump che fa Putin imperatore, elevandolo dall’inferno delle sanzioni e delle maledizioni al trono condiviso di una partnership neo-autoritaria, che ridisegnerà il mondo dopo la mutilazione ucraina, aggravata dall’umiliazione di Zelensky trattato da junior partner, anzi da vassallo, prima ancora che il negoziato cominci. Difese? Reazioni? Alternative? Nel vuoto del pensiero occidentale, nella latitanza di un’obiezione democratica, nell’immediato spirito gregario delle élite, nella complicità del tecno-capitalismo il nuovo autocrate fa quel che vuole, prende quel che gli serve, battezza a piacere la realtà, mentre si prepara a trasformarla.
E questo è il punto più incomprensibile di ciò che sta accadendo: la resa culturale di ciò che resta dell’Occidente.
Come possiamo accettare, dopo ottant’anni di libera condivisione del costume democratico, la ridenominazione del mondo secondo i bisogni e le aspettative di Trump che piega la quotidianità esercitando il vero potere supremo, la ridefinizione del reale? Questa potestà viene prima della politica, anzi la determina: è l’egemonia culturale, che ha cambiato segno. Dall’altra parte c’è un pensiero improvvisamente rattrappito, insicuro, espresso sottovoce, necessariamente preoccupato di custodire i suoi valori nella bufera e portarli in salvo come i lari e i penati, per il giorno in cui la storia oggi ipnotizzata dalla rivoluzione trumpiana ricomincerà a scorrere. È il pensiero liberaldemocratico che senza accorgersene ha assunto il tono della minoranza, mentre cerca ancora il timbro dell’opposizione faticando a trovarlo. La democrazia non mobilita, e d’altra parte non basta a se stessa perché non può difendersi da sola, estranea com’è al meccanismo autoritario. Ha bisogno dei cittadini. Ecco perché il Cremlino attacca Sergio Mattarella: proprio perché ripropone un pensiero alternativo alla logica imperiale della dominazione, fondandolo sugli strumenti costituzionali, istituzionali e ideali che hanno costruito l’Unione Europea nel dopoguerra non come un impero, ma come la terra della democrazia del diritto e dei diritti.
Questo siamo, o dovremmo essere. Dobbiamo esserne consapevoli, oggi che si avvera la profezia: l’Europa viene da Venere, l’America sicuramente da Marte.
[Ezio Mauro, la Repubblica del 16 febbraio 2025]
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