di Pasquale Scarpati
In riferimento alla recente richiesta di un lettore e a un mio precedente articolo sul tema
Di Franco Feola ebbi a dire in un mio scritto risalente ai tempi “eroici” di Ponza Racconta. Quando cioè si prendeva alla lettera ciò che è scritto in epigrafi e si notava un “fervente” entusiasmo intorno alla nuova iniziativa. Ognuno, infatti, leggeva con interesse e vedeva e si vedeva in vecchie foto. Era tutto in tramestio.
Son passati appena undici anni eppure sembrano lontanissimi. Non per il sito in sé ma perché oggi è un accavallarsi di notizie ed eventi per cui si corre e si corre come quando con le cosiddette carriole o con i cerchioni si correva rumoreggiando lungo la via stretta di Corso Carlo Pisacane e giù per la discesa che porta a Sant’ Antonio. Quello sferragliare di ruote prima di legno e poi quelle “ velocissime” a cuscinetto.
Ma tornando a Franco Feola, ovviamente io non posso dire dei suoi trascorsi da imprenditore ma posso dire che abitando di fronte a casa mia – sott’ ’a curteglia – lo vedevo spesso, alto e con una barba non rasata. Ma soprattutto mi metteva paura perché notavo una “palla” vicino la trachea.
Nello stesso tempo il suo cane, Jack, serviva a mia madre per farmi mangiare. Ero, infatti, piuttosto inappetente. Ma per raggiungere lo scopo mia madre, pur non avendo molta simpatia per gli animali – cosa non fanno le mamme! – chiamava il cane che mi sembra fosse bianco con macchie scure, apriva la porta che dava sulla strada e lo faceva “accomodare”. Io ero contento e solo allora aprivo la bocca per… ingozzare.
Sua moglie, Filomena, mi sembrava una donna abbastanza “attiva”. Forse si dava delle arie, non so. Fatto sta che quando parlava, nella concitazione, si esprimeva in un “italiano correggiuto”. E ciò suscitava ilarità da parte di chi ascoltava. Almeno così ricordo che si dicesse in giro. Forse ne sa qualcosa chi è più avanti in età rispetto a me.
Ricordo che dalla loro casa ogni tanto uscivano due suoni che, nel silenzio, si spandevano per ogni dove. Quello profondo, cupo ed intenso di una “tofa” ed un altro sottile, lungo, sibilante: un fischio. Incuriosito chiesi a mia madre cosa fosse. Quella mi rispose che era una pentola a vapore, un “marchingegno” americano.
Collegato a Franco ricordo anche che quando entravo nella “terra di mezzo” (quella che andava dalla fine d’u ’ruttone di Giancos a sopra ai Conti) due “odori” pungevano le mie narici: quella dell’urina alla fine del suddetto ‘ruttone e quello della nafta che si sprigionava dalla centrale. Una (per me) grande ruota nera girava non molto veloce in modo ritmato: bum, bum, bum… ed il suono si affievoliva piano piano fino a scomparire del tutto verso lo Scoglio di Frisio.
Qualche volta, insieme a Gennarino ’a centrale sono entrato in quel locale ed ho potuto osservare tutti i quadri elettrici e quella ruota che ne faceva girare una più piccola. Anni dopo mi sono meravigliato quando visto al suo fianco, sulla sinistra, un motore, anzi una ruota, più piccola che girava in modo più veloce. Ma soprattutto rimasi meravigliato perché Gennarino mi disse che quel motore era più potente dell’altro che, peraltro, ancora funzionava. Per quanto riguarda “la luce” alle Forna, sarà anche arrivata nel 1954 (quando io avevo sette anni) ma io ricordo benissimo che giungeva in poche case se non pochissime e se passava per i Conti ricordo molto bene, come ho già scritto, le notti buie rischiarate dal lume a petrolio a casa di mia nonna. E ricordo ancora che anche giù al Porto, la corrente veniva erogata per poche ore durante la giornata. Forse quelli più avanti nell’età potrebbero dire in quali di queste ore. Tant’è che non si poteva possedere nessun elettrodomestico né tanto meno affettatrici elettriche (le prime furono con la manovella). Tutto era tagliato a filo di coltello: dai salumi alla carne (per cui veramente bisognava essere “artisti” del settore”).
Il primo a fabbricare il “ghiaccio” fu Maurino, a Giancos? Altrimenti giungeva in sacchi di iuta da Terracina . Questo serviva sia per fare ’a ’rattata (la grattachecca) sia per fare il gelato da Mast’Arturo, lì vicino a’ chianca (macelleria) di cumpa’ Tatonno. Un’enorme (al mio sguardo di bambino), manovella faceva roteare due grandi fruste in un capiente contenitore. Un delizioso profumo si spandeva per tutto il vicinato. Io fingevo di passare di lì per caso e chiedevo al buon uomo se volesse una mano. Quello sorrideva: aveva già capito. Salivo su una panca e mi mettevo alla manovella. Dopo un po’ era già stanco. Quello con la paletta prendeva lungo il bordo un po’ di gelato, lo metteva nel “coppetto” e me lo faceva assaggiare. Era una delizia! Per vari motivi: per prima cosa era uno “sfizio” e come tale non era cosa da leccare in qualsiasi momento e in qualsiasi stagione; in secondo luogo e soprattutto, era frutto di un certo impegno. Da cui discende una considerazione fatta col senno di poi: che a quei tempi era molto difficile che gli adulti regalassero qualcosa senza aver fatto nulla!
Franco Feola mi ha aperto altri “orizzonti”, o meglio mi ha fatto spaziare.
Tutto questo dai ricordi di…
Pasquale
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