di Enzo Di Giovanni
A volte può essere più interessante osservare l’isola da fuori, per averne una visione più completa. O forse è solo la consolazione, un po’ pleonastica, di chi si inventa una narrazione per giustificare il vivere un periodo, più o meno lungo, sulla terraferma.
Sta di fatto, che, inevitabilmente, il sostare in una terra di frontiera, quando l’isola ce l’hai nel sangue, ti porta a vivere o contemplare dinamiche tipicamente isolane che altri non noterebbero. Non mi riferisco ai capannelli di amici che si incontrano per strada, fuori ai negozi, sulle panchine; quelle sono dinamiche comuni, riscontrabili in qualsiasi angolo del mondo: no, è il porto il luogo d’elezione, la terra di frontiera degli esuli.
Al porto gli isolani si incontrano, si scambiano commenti, notizie, o semplicemente si sentono, si annusano.
Il porto diventa la continuazione dell’isola, il ponte spazio-temporale che sostituisce quello fisico che non esiste, che impedisce di essere terraferma.
Può sembrare paradossale, ed in fondo lo è.
Se ci si sente legati ad un filo stretto con l’isola al punto da non riuscire ad identificarsi in altri luoghi, perché allora si sverna altrove, anziché fare comunità, o per essere più prosaici, perché non si spendono sull’isola i guadagni estivi incentivandone vivacità economica e di conseguenza vitalità?
Perché il destino delle isole, di tutte le isole, è da sempre legato alla salute delle comunità che le abitano.
Fin quando dette comunità riescono ad essere autosufficienti, a produrre quanto basta per vivere ed essere identitarie, sopravvivono. Ma solo in quel caso: è semplice.
In Italia conosciamo bene queste situazioni.
Nel numero di dicembre scorso del National Geographic viene evidenziata “l’Italia lontana”, quella periferica da cui si scappa, e non parliamo solo di isole minori.
Paesi sempre più spopolati, dove sono state varcate le soglie minime di sopravvivenza, oltre le quali si chiudono scuole, ospedali, in cui mancano lavoro, spazi di socializzazione ed i trasporti sono insufficienti – se non inesistenti – e a cui evidentemente non bastano le iniziative in vigore, come le promozioni di case in vendita ad un euro, o i fondi del PNRR. Eppure parliamo di circa 13 milioni di persone: una forma di migrazione interna che non fa notizia, forse perché non fa campagna elettorale, pur producendo molti più danni di quella presunta “sostituzione etnica” a cui urlano i complottisti di governo.
Pensateci: 13 milioni di migranti!
Una enormità, soprattutto se rapportati ai circa 5 milioni di migranti extracomunitari che risiedono in Italia, dati ufficiali alla mano.
E’ un brutto segnale: le cose che non si vedono non fanno notizia, e se non fanno notizia non c’è speranza e modo di affrontare e risolverne le problematiche.
La demagogia politica in cui annaspa il nostro Paese si preoccupa di porre in evidenza la “perdita di valori” data dai migranti in entrata, anche quando potrebbero comportare il ripopolamento di aree in crisi (la famosissima ed emblematica vicenda di Riace insegna), senza preoccuparsi minimamente di una questione molto più basica: un paese deserto è molto meno ”identitario” di un paese multietnico.
In questi 13 milioni di italiani in fuga da se stessi, ci siamo anche noi.
Non l’ho nominata, perché mi interessava porre l’accento sul generale, ma l’isola è Ponza, e la terra di frontiera è Formia.
Noi non finiremo come i comuni in cui si vendono le case ad un euro, perché la bellezza e la vivacità del luogo ne impedisce la svalutazione economica, ma nulla ci salverà dalla desertificazione, perché il libero mercato non obbliga chi acquista ad abitare un luogo stabilmente. E l’identità invece ha bisogno di una popolazione stabile e presente al territorio.
Stavo rileggendo in questi giorni un libro del nostro amico Giuliano Massari: E’ stata dura, in cui descrive Ponza dal punto di vista architettonico.
E’ un continuo richiamo all’identità, fin dalla prefazione scritta da Gabriele Panizzi*: “Dobbiamo preservare le caratteristiche identitarie dell’isola: tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta viene formulato e varato il piano regolatore generale dell’isola. Ad esso, tuttavia, non fanno seguito strumenti attuativi e disciplinari adeguati alle esigenze di potenziamento/crescita dei nuclei abitativi che assicurino il rispetto delle caratteristiche urbane, ambientali e paesaggistiche che hanno reso l’isola di Ponza celebre nel mondo. Il processo di crescita è caratterizzato da una sorta di spontaneità che incide negativamente su dette caratteristiche”… eppure, nonostante ciò … “pur in assenza di strumenti urbanistici l’adeguamento delle condizioni abitative alle esigenze di vita dell’epoca contemporanea non ha provocato rilevanti trasformazioni delle fondamentali caratteristiche geomorfologiche, ambientali e paesaggistiche del territorio dell’isola”.
Insomma, avremmo del potenziale per sopravvivere. Perché siamo fortemente identitari: nell’architettura, nella cultura, nella socialità. La vita dura, quasi una scommessa, ha plasmato intere generazioni passate ed ancora sopravvive nel nostro Dna.
Ma siamo fragili, con pochi strumenti.
Il risultato è quella dicotomia di cui parlavo all’inizio: i ponzesi scappano da Ponza, ma passano la giornata al porto di Formia, ad annusare l’aria che dal mare arriva, l’aria dell’isola, in un circolo vizioso senza capo né coda, senza inizio e senza fine.
Paolo Rumiz, nel descrivere un personaggio di un suo racconto, Il Ciclope – di cui abbiamo già parlato sul sito – dice che “dopo una vita di traslochi, si aggrappava a quel brandello di terra come all’unica cosa ferma della vita”.
L’isola, in quel caso, non è Ponza, ma poco importa.
In questo contrasto di parole, in quella terraferma che diventa liquida, senza approdi, ed in quell’isola che diventa ferma, vi è l’essenza, la forza e la debolezza degli isolani, e dei migranti di tutto il mondo.
*Nota – Gabriele Panizzi (Terracina, 11 marzo 1937) è un politico italiano, esponente del Partito Socialista Italiano e già parlamentare europeo. Dal 1984 al 1985 fu presidente della Regione Lazio.
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