di Mario Mazzoli
Sono passati 40 anni dalle prime verifiche e ricerche, ufficiali, condotte sul relitto di una antica nave da carico affondata presso la Secca dei Mattoni, tra Ponza e Palmarola. Una ferita ancora aperta.
Localizzazione della “Secca dei mattoni” , in una mappa dei fondali intorno a Ponza, indicata col simbolo dell’ancorotto
Il relitto rappresenta una importante testimonianza dei traffici marittimi, che hanno interessato l’Arcipelago Pontino in antichità.
La nave si trova a circa 29 metri di profondità ed è molto probabile che il suo affondamento sia stato causato dall’urto contro la secca la cui sommità è circa due metri sotto il livello del mare.
Il sito risultò depredato e solo nel settembre 1986 fu effettuata una sistematica ricognizione del giacimento grazie alla segnalazione di Roberto Calò e Silverio Mazzella, che notando il frequente sostare di imbarcazioni sul punto, si insospettirono ed effettuarono una verifica.
Al tempo, dopo un intervento dei Sommozzatori della Guardia di Finanza che rimossero molteplici anfore e del quale non fu possibile ottenere alcuna documentazione, la Soprintendenza assegnò direttive per un primo controllo tecnico-scientifico.
Furono incaricati i tecnici della A.S.S.O. – al tempo responsabili per l’archeologia subacquea per la Sede Centrale dell’Archeoclub d’Italia – con la supervisione scientifica del prof. Piero Alfredo Gianfrotta.
Sin dalla prima immersione, l’importanza e la consistenza del giacimento furono evidenti.
Su un fondale di sabbia e posidonia, a circa 29-30 metri di profondità fu individuato uno spazio alto circa un metro e mezzo, lungo circa trenta e largo undici metri. Il centro di questa collinetta di matta e posidonia era già stato scavato dai clandestini e oggetto di recuperi da parte della Guardia di Finanza.
Vi si trovava quindi una fossa di metri 8×5, profonda 70/80 cm.
Promosse e autorizzate dalla allora Soprintendente Archeologica per il Lazio, dott.ssa M. L. Veloccia, nei due anni successivi seguirono delle brevi campagne, anch’esse autofinanziate da A.S.S.O. e dalla famiglia Mazzella.
Nelle campagne fu facile notare che le anfore, visibili anche nella trincea praticata nella zona centrale del cumulo, pur se inclinate a causa della spaccatura dello scafo, erano ancora disposte nella posizione originaria di carico.
Se ne individuarono tre strati, con il puntale delle anfore dello strato superiore incastrato tra i colli di tre anfore dello strato sottostante.
Tra le anfore, ma in zone ben circoscritte, fu possibile rinvenire della ceramica a vernice nera. Si riscontrò, inoltre, mescolanza di anfore Dressel 1, prevalentemente di tipo A, e di Lamboglia 2 e, dopo il recupero del secondo strato, vennero alla luce alcuni tratti, ottimamente conservati, dello scafo.
Successivamente fu accertata, in altre zone della nave, l’assenza di Lamboglia 2 con un’alta percentuale Dressel C miste a 1A e B, queste ultime sempre presenti in tutta l’area investigata. Anche in questa situazione la ceramica, costituita soprattutto da patere ancora impilate, occupava la parte e superiore del carico, sempre in punti ben definiti tra le anfore.
Sono numerosi gli elementi scientifici e le notizie che un così breve intervento consentì di acquisire.
Già al tempo, per la successione delle anfore nel carico nelle zone sondate e per la presenza di alcuni elementi caratterizzanti, si avanzò l’ipotesi che la nave potesse essere partita dalla costa pugliese per proseguire verso la Campania, con un probabile carico a Pozzuoli, concludendo il suo viaggio sulla Secca dei Mattoni negli anni tra la fine del II° e gli inizi del I secolo a.C. E’ probabile che la meta del viaggio fosse la Gallia Narbonense, dato anche il ritrovamento di altri relitti simili.
Negli anni che seguirono, nonostante ASSO si fosse candidata più volte per attivare un team multidisciplinare internazionale – finanziato da sponsor esterni e da diversi Ponzesi – che si occupasse dello scavo e dello studio del giacimento, si preferì contrapporre alle notizie informali di successivi depredamenti degli interventi spot di ricopertura, peraltro di scarsa efficacia.
E poi …… il silenzio, o meglio, episodiche chiacchiere, sopralluoghi sporadici, ari-ricoperture, nessun progetto attivo per la ricerca e la fruizione.
Una triste fine per quello che probabilmente è uno dei più importanti relitti antichi del mediterraneo.
Un oblio al quale non hanno resistito nemmeno i reperti recuperati, catalogati e inventariati – oltre che ovviamente studiati – nel corso delle campagne condotte dalla Soprintendenza e da A.S.S.O.
Una fine ancora più triste – che rasenta il suicidio scientifico e socio economico – se si pensa che in 40 anni si sarebbe potuto sviluppare e attivare un progetto pluriennale integrato di studio e valorizzazione al pari di quanto avviene regolarmente nei paesi “normali”.
Ma noi, probabilmente, normali non siamo…..
Note della Redazione:
– Il dottor Mario Mazzoli è Direttore Generale dell’Associazione A.S.S.O. ETS (Ente del Terzo Settore)
ed Ispettore Onorario per le aree sommerse e sotterranee della Soprintendenza per la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale.
Abbiamo già avuto il piacere di ospitarlo su queste pagine in diverse occasioni come quelle legate agli eventi organizzati in collaborazione con l’Ente Parco (Le antiche vie sotterranee dell’acqua – Un progetto per Ponza) e Il Centro Studi e Documentazione Isole Ponziane (Un ‘viaggio’ nei mondi sommersi e sotterranei)
– a corredo dell’articolo del dr. Mazzoli alleghiamo la copia di Vivere Ponza (la rivista trimestrale di turismo, cultura e attualità che si pubblicava negli anni ’80) con gli scritti sulla scoperta archeologica, di Giuseppe e Silverio Mazzella, di Roberto Calò e dell’archeologo Piero Gianfrotta.
in f.to pdf VIVERE PONZA – ANNO I – N. 4 – 1985
Silverio Lamonica
17 Gennaio 2025 at 13:37
In merito alla “Nave sulla Secca dei Mattoni” ricordo che nel 1986 ero sindaco di Ponza. Il rinvenimento delle anfore ebbe una grande risonanza, tanto è vero che la RAI inviò a Ponza Maria Giovanna Elmi per un servizio giornalistico che avvenne in pompa magna con anfore e autorità in bella vista (me compreso) davanti alla caserma dei carabinieri. Non fui intervistato, né ci tenevo.
Ricordo che dopo la scoperta del materiale archeologico, si pensò a ricoprire il sito per scongiurare altri atti vandalici. Se ne occupò Onorato (figlio di Giovanni, il noto barcaiolo) e pagai di tasca mia, senza gravare sulle casse comunali.
Solo ora apprendo che si voleva farne un progetto di studio. Se qualcuno me lo avesse comunicato, di certo mi sarei dato da fare.