Ambiente e Natura

I capelli di strega, i tagliolini di nonna Sandrella… e altri film (1)

di Sandro Russo

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Un incontro casuale, per strada; dalla macchina, lungo una rete di recinzione, vedo le barbe di semi (precisamente acheni) di Clematis vitalba, una rampicante delle nostre parti. L’avevo vista altre volte, lungo quella rete, senza farci particolare attenzione. Stavolta mi colpisce perché, controsole, le barbe si transilluminano d’argento. E qui si innesca un filo di ricordo che provo a partecipare; d’altra parte, ognuno ha le sue ‘madeleine’.

Il fatto è che questa denominazione “capelli di strega” – traduzione italiana dal cassinese (ciociaro) gli capiglie relle janare – non l’ho più trovata da nessun altra parte, non so neanche se non sia parte del lessico familiare della mia ascendenza cassinate; ma io quel groviglio di semi l’ho sempre chiamato così. Il nome l’avevo imparato da piccolo da mia nonna paterna. Nonna Sandrella (da cui il mio nome), rimasta vedova a 26 anni con tre figli piccoli; il marito (mio nonno paterno) l’avevano mandato a morire sul Carso, nella prima Guerra Mondiale. Non si era mai più risposata – per non dividere la proprietà, mi fu detto; erano altri tempi!”. Nonna non viveva con noi, ma nella grande casa in campagna, con la famiglia del fratello di mio padre.
Comunque quell’ambiente lì… un’antica casa colonica nelle campagne intorno a Cassino, la cantina, le grandi botti per il vino… La mia famiglia storicamente riforniva di vino l’abbazia di Montecassino – il vino della Messa, seee! – Ricordo che al tempo della vendemmia un monaco del monastero si trasferiva nella casa di mia nonna (e mio zio, il maggiore dei fratelli che aveva preso la direzione dell’azienda), per presiedere alle operazioni della vinificazione. Sempre lo stesso monaco, che faceva di quell’appuntamento una ragione di vita. Che sagoma fra’ Pietro! …me lo ricordo ancora! Tutte belle storie – sarebbero da raccontare – dalla mia infanzia, divisa tra Ponza – i tre mesi estivi – e Cassino, per il resto del tempo, la scuola e tutto, ma passato a sognare il giorno che sarei tornato sull’isola.
A chi me lo chiedeva, da piccolo e da adolescente, dicevo che parlavo due lingue: il ‘ponzese’ e il ‘cassinese’, le altre, compreso l’italiano, sarebbero venute dopo.
Per il mimetismo tipico dei bambini, le parlavo perfettamente, senza incertezze o inflessioni, pena lo sfottò… anche la crudeltà è tipica dei bambini. Essere chiamato “u cassinese” a Ponza era per me un’onta. In questa derisione eccelleva Aniello De Luca che appena mi vedeva mi apostrofava con queste parole (affettuose?) di benvenuto: Ué, è arrivate ’u cassinese… Comme sta “gliu puorch’ sott’agli liétt’?
Quanto l’ho odiato! Poi con gli anni siamo diventati amici, ma è passato, da quando mi chiamava ‘cassinese’, a chiamarmi dottore’ …che neanche mi stava bene. Mai che m’avesse chiamato Sandro’.

Questa digressione era per spiegare che mia nonna Sandrella queste ‘barbe’ invernali della Clematis vitalba (nome conosciuto molto più tardi) aveva detto a noi nipoti riuniti intorno a lei, le chiamava gli capiglie relle janare, perché – ci diceva – nelle notti senza luna le streghe delle nostre parti – le janare appunto – si impigliavano con i capelli nelle siepi e sulle reti di recinzione, si strappavano via e li lasciavano là.

Non che la mia famiglia paterna indulgesse al magico… Anzi! A cominciare da mio padre! A casa c’era la regola di non esternare i propri sentimenti, non si piangeva e non si gridava. Erano regole non scritte imposte dall’esempio diuturno dei “grandi”; non c’erano grandi entusiasmi per la religione, ma i miei andavano in chiesa tutte le domenica. Non c’era spazio neanche per il diavolo e per la magia… non ci si abbracciava né baciava… Chissà da dov’erano uscite le janare di nonna Sandrella, mi sono chiesto più volte negli anni successivi.

Credenze e storie immaginifiche erano più consone alla famiglia-mondo della mia infanzia a Ponza. Lì sì che i rapporti erano molto carnali (nell’accezione ponzese: “di pelle’, emotivo-viscerali); grandi  abbracci e il giro del bacio della buonanotte (dato e ricevuto) per tutti noi bambini e il resto della famiglia.
Da piccolo il mimetismo che applicavo per il dialetto, al cambio di ambiente e di codici comunicativi, lo applicavo anche ai rapporti interpersonali, naturalmente, senza starci troppo a pensare.
Credo che questa predisposizione (abilità o doppiezza che sia) l’abbia mantenuta anche da grande e sia tuttora operante.

Ma torniamo a nonna Sandrella, che sia pur trattenuta nei sentimenti, ci teneva sempre intorno, noi nipoti. Non raccontava storie, né favole, ma lo stesso, quando parlava, la stavamo a sentire come un oracolo – qualche volta lezioni morali, ma con leggerezza… Ricordo perfettamente la sua figura austera, vestita sempre di grigio o di marrone, con il fazzoletto in testa come sempre le contadine anziane, a quel tempo. Non la ricordo che rideva; mai che si lasciasse andare.
Dovessi fare un film – ho pensato spesso negli anni successivi -, ce la metterei sicuramente dentro. Come mi apparve una volta – ma l’ho ricordata sempre così -, mentre faceva la pasta all’uovo nella luce incerta  della stanza che fungeva da cucina e da ritrovo nella vita di tutti i giorni. Ci doveva essere ancora il lume a petrolio, nelle campagne, e forse la luce dal fuoco del camino. Lei faceva i tagliolini sul piano dell’“arca” (madia), una grossa cassapanca dai piedi alti dove si conservava il pane, che aperta diventava un comodo piano di lavoro per una persona adulta. Lì si impastava anche il pane. Stesa la pasta col mattarello (arnese importante, avrà sicuramente avuto un nome dialettale, ma non lo ricordo) fino a farne una sfoglia sottile, la cospargeva di farina e l’arrotolava. Intanto si era messa sulle spalle una piccola tovaglia bianca, come una mantellina. Infine con un coltello tagliava il rotolo trasversalmente, in spazi sempre uguali, e con un gesto molto fluido svolgeva le sezioni in lunghe strisce e se le adagiava sulle spalle. Riempito tutto lo spazio disponibile – la famiglia era numerosa e i tagliolini erano tanti -, si liberava della mantella quasi volteggiando e l’adagiava da una parte. Poi ne prendeva un’altra e ricominciava da capo, fino a che non aveva trasformato tutti i rotoli in tagliolini bianco-dorati. Io (immagino ora) restavo a guardare a bocca aperta quella che ho sempre ricordato come una specie di danza, anche se fatta con i movimenti lenti e essenziali di una donna anziana.


Dall’infanzia restano queste immagini che sembrano uscite fuori da un sogno  e che poi, nel prosieguo della vita, conosciuta la scrittura e il cinema, uno pensa di riprodurre in qualche modo. Qualche volta si dice “lo metto in un film” , ma è piuttosto raro che succeda – di Fellini ne nasce uno per secolo: penso alla sequenza di Fellini 8 e 1/2 , la scena del ritorno nella casa di campagna dove Guido è stato da piccolo. Con la scrittura è più facile e sull’onda ho ricordato altre cose importanti per me, della mia infanzia a Cassino, sempre del genere di quelle che avrei messo in un film.

 

Nota (estr. scheda da Wikipedia)

Clematis vitalba (L., 1753), comunemente nota come vitalba (da vite alba, “vite bianca”), è una pianta appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, diffusa in Europa e Medio Oriente. In Italia è presente su tutto il territorio nazionale sino a circa 1300 m di quota, in terreni incolti, boschi di latifoglie e macchie temperate.
(…) Mostra un comportamento rampicante (fanerofite lianose) con fusti ramificati, che si allunga anche oltre i 20 metri sugli alberi, sviluppando alla base tronchi legnosi anche piuttosto grossi. Il profumo, quasi impercettibile, è vagamente simile a quello del biancospino. Fiorisce tra maggio ed agosto a seconda della quota.
I frutti sono acheni dotati di una lunga estremità piumosa per la disseminazione attraverso il vento.

[I capelli di strega, i tagliolini di nonna Sandrella… e altri film (1) – Continua]

 

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