Personaggi ed Eventi

Su Volonté, l’intervista a Mastandrea

proposto dalla Redazione

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“A tutto Volonté” aveva titolato Gianni Sarro il suo contributo personale a Volonté (leggi qui); per quello ripreso da L’Unità, leggi qui. E infatti non è mai abbastanza parlare di Volonté, tanto che riprendiamo  – da la Repubblica del 10 dicembre 2024 un’intervista a Valerio Mastandrea.

L’intervista
Mastandrea
“Politica, tecnica e talento la lezione di Volonté”
di Alberto Crespi e Francesco Zippel – Da la Repubblica del 10 dicembre 2024

– A trent’anni dalla morte il ricordo e l’eredità di un protagonista del nostro cinema dai film con Leone a “Sacco e Vanzetti”
– L’intervista a Valerio Mastandrea è stata realizzata per il numero 610 di
– Ho capito che era un grande attore con Sacco e Vanzetti , che ricordo bene, così come Indagine.

Ricorda la prima volta in cui ha visto recitare Volonté?
«Forse nei film di Sergio Leone, da bambino. Mi sembra di ricordarlo da sempre, come un nonno con cui hai parlato poco ma del quale hai ricordi forti. L’ho sempre visto, a parte in casi eccezionali, in proiezioni all’interno di rassegne.
Soprattutto al festival “La valigia dell’attore”, alla Maddalena. Quelli nati a metà anni ’70, come me, non hanno vissuto quel tipo di cinema.

Cosa l’ha colpita nel suo modo di recitare?
«La coerenza con cui ha sempre cercato una sintonia tra il nostro lavoro e l’essere un cittadino consapevole della propria realtà storica, politica, sociale e culturale.
La sua integrità nella scelta dei ruoli, nell’usare questo mestiere per approfondire il proprio posto all’interno della società, e il lavoro politico, lo rendono inarrivabile. Ha sempre cercato di tradurre in cinema la sua idea di giustizia sociale. Io ho una storia diversa.
Sono stato preso in mezzo alla strada, ho imparato questo lavoro facendolo, senza basi».

Quale dei suoi film l’ha più colpita?
«Indimenticabile è il discorso in tribunale di Sacco e Vanzetti, all’apparenza molto teatrale, invece di una dirompenza e di una forza inarrivabili, grazie alla potenza con cui declama quelle parole, dolcissime e umane».

È difficile riproporre oggi quello che faceva lui con Petri, Montaldo o Rosi?
«All’epoca il cinema era un rituale culturale e sociale. Trattare argomenti di un certo tipo, e spostare l’opinione pubblica su temi forti, era coraggioso da un punto di vista produttivo, ma con una sua logica. Oggi il pubblico non c’è più, non ci sono i cinema o ce ne sono pochi. L’ambizione di chi fa cinema è che il proprio film venga visto da più persone possibile. Sono cambiati i tempi, c’è una tv feroce, invasiva, anche potenzialmente ottima. Ma bisogna riconoscere al cinema la straordinarietà dell’esperienza. Lo dico da spettatore. Gli attori e i registi non mancano, non sono mai mancati.
Non è che negli anni ’80 e ’90 non ci fossero attori e registi bravi, solo si andava delineando una forma di produzione che andava verso un’altra direzione».

Per prepararsi a un film, Volonté studiava il copione e lo ricopiava più volte.
«Io i copioni li lascio a casa. Ho una passione iniziale fortissima verso il copione, poi sul set mi faccio ispirare lì per lì. Mi giustifico dicendo di avere un approccio viscerale, ma è una difesa: trovare una metodologia nelle cose mi spaventa. Ho un approccio contrario a quello di Volonté».

Altri attori e colleghi sono più simili a lui?
«Esistono attori così, capaci di fondere tecnica e talento. Elio Germano. O Luca Marinelli.
Agiscono su una personale follia con cui si buttano dentro alle cose.
Io non ce la farei a sopportare quel peso. Prendi Germano: lo metti in un film, e non lo vedi mai. C’è una mimesi totale nei confronti del personaggio. Invece ci sono attori che vengono “prima” del personaggio, e quando l’unica cosa a cui pensi è “guarda quanto è bravo”, da spettatore hai perso il contatto con il personaggio».

Quando si parla dei grandi attori italiani, si parte dai “colonnelli” della commedia: Mastroianni, Gassman, Sordi, Tognazzi, Manfredi. Volonté sta accanto a loro, ma non “con” loro. Però per gli attori di oggi il punto di riferimento è Volonté e non, per dire, Sordi.
«È come se Volonté, nel suo lavoro, avesse un’integrità diversa rispetto agli altri. Come se ci fosse più pudore. Probabilmente incarna un cinema più alto, che scende meno a compromessi. Sordi è sceso a compromessi perché doveva fare film popolari. Ma poi che ne sappiamo? Forse a Volonté un discorso del genere darebbe fastidio».

Lei è presidente del Comitato tecnico-scientifico della Scuola d’arte cinematografica di Roma diretta da Daniele Vicari intestata proprio a Volonté.
«Ci sembrava il nome granitico su cui fondare un’integrità della scuola, della didattica, delle aspirazioni di chi l’avrebbe frequentata: andare “contro” il talento, l’occhio di bue che ti illumina da quando cominci a studiare, come se fosse il titolo perfetto per un mestiere normale.
Dare alla scuola il nome di Gian Maria ci dava la sensazione di stare con i piedi per terra: stai facendo cose belle, alte, ma ricordati che sei un cittadino, e fare l’attore non ti rende super partes. C’è una responsabilità».

Lei è stato spesso alla Maddalena, buen retiro dell’attore e luogo in cui è sepolto. Ha trovato elementi che risuonassero con l’idea che aveva di Volonté?
«Conoscendo sua figlia Giovanna Gravina, direi di sì: il vento, il mare, il sole, gli elementi basici di madre natura, mi sembrano coerenti con la sua persona. Deve essere stato un uomo fumantino, ma pure dolcissimo».

Bianco e nero dedicato a Volonté (disponibile da giovedì, edito da Centro sperimentale di cinematografia in coedizione con Edizioni Sabinae) in collaborazione con il documentario Volonté L’uomo dai mille volti di Francesco Zippel, presentato a Venezia 2024.

L’articolo di Repubblica in file .pdf: Volonté. Intervista a Mastandrea. la Repubblica 10.12.2024

 

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