Mediterraneo

Personaggi ‘emergenti’: la foca monaca. Un libro dedicato a lei

proposto da Sandro Russo da Robinson di Repubblica

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Presenza  tra il reale e il fantastico dell’immaginario ponzese, la foca monaca – ‘u voie marino, il bue marino – è più volte evocata nei racconti dei pescatori più anziani e nelle pagine del sito. Popolava ancora le coste e le grotte dell’isola ai tempi del confino, durante “il ventennio” (cfr. le memorie del barone Camerini ne “L’isola delle Sirene” di Rita Bosso); era avversata (e qualche volta uccisa) dai pescatori perché depredava il pesce e stracciava le reti, e dai contadini perché rubava l’uva quasi matura nelle catene coltivate a vite delle parracine più vicine al mare. Era “il mariuolo”, la ladra che ha dato il nome all’omonima Cala e Grotta in Ogliastra, in Sardegna, al tempo in cui i pescatori ponzesi vi si trasferivano per motivi di pesca.
Qui di seguito la prima delle schermate dell’indice con articoli che la riguardano.


Condivido con piacere con i lettori un estratto del libro di Giuseppe Nortarbartolo (da Robinson), amante e studioso del mare, dedicato alla Foca monaca e al Mediterraneo.
S. R.

Alla ricerca della foca monaca: quando l’uomo tradì il mare
di Giuseppe Notarbartolo – Da Robinson del 18 novembre 2024

Il viaggio di uno studioso cominciato con la ricerca di uno dei più antichi abitanti del Mediterraneo. Per chiederle scusa di ciò che abbiamo fatto

Una foca monaca del Mediterraneo nelle acque al largo di Lichadonisia, in Grecia (dall’articolo di Robinson)

Ti ho aspettato. Per tutta la vita ti ho aspettato, tutte le volte che mi capitava di trovarmi nei luoghi dove vivi. Ore trascorse a scrutare la superficie del mare, giorno dopo giorno, alla ricerca di segni rivelatori della tua presenza: un’increspatura della superficie o il lampo di un paio di pinne emerse dall’acqua, colto magari con la coda dell’occhio. Che tu ci fossi, da qualche parte, lo sapevo. Ma tu continuavi a restare nascosta.

Con il passare degli anni, ho imparato ad accontentarmi della consapevolezza della tua esistenza, surrogato di un’esperienza diretta che mi era negata. Godendo, nel frattempo, della bellezza del tuo mondo, così perfetto per il corpo e per la mente, come se il mio habitat coincidesse con il tuo. E in effetti, in parte, coincide con il tuo. Acque trasparenti come il più puro dei cristalli. Gli effluvi degli aromi di cisto, lentisco, timo e salvia selvatica che si diffondono sul mare dalla scogliera soprastante. Le acrobazie, su in alto, dei falchi della Regina che si stagliano stridendo nel cielo. La permeante serenità del tuo ambiente aveva nei decenni preso il posto dell’emozione di vederti, di percepirti in carne e ossa.

Avevi buone ragioni per essere timorosa, poiché eri, e ancora sei, il più raro pinnipede del pianeta. Ti chiamano foca monaca, un appellativo tanto misterioso da sfuggire a ogni spiegazione convincente. Eppure, la tua specie non ha di per sé alcun motivo di essere rara. Non vi è nulla di difettoso in te, né nell’abilità dei tuoi simili di prosperare lungo le coste mediterranee. Prova ne sia che in passato popolavi le spiagge di tutto il Grande mare, da Gibilterra alla Palestina e da Venezia al Golfo di Gabès. Testimonianze della tua abbondanza si rincorrono, a partire da quella di Omero, il primo cronista delle tribolazioni degli uomini e delle donne del Mediterraneo. Nell’Odissea, il poeta narra di branchi di foche radunate da Proteo, figlio di Poseidone, intorno all’isola di Faro, proprio fuori da quello che divenne molto più tardi il porto di Alessandria.

Molti resoconti, nel corso dei millenni, offrono prove inequivocabili della tua passata prosperità. Fino a tempi recenti, per essere precisi. Fu principalmente nel secolo passato che l’incessante persecuzione umana ti ha spinto sull’orlo dell’estinzione, riducendo i tuoi numeri a poche centinaia di individui, sparpagliati in nuclei sparuti nel Mediterraneo orientale e in alcune remote località dell’Oceano Atlantico. La ragione di tanta animosità era, ed è tuttora, del tutto ingiustificata. È vero, talvolta le reti dei pescatori le danneggi, ma questo unicamente perché gli uomini non hanno lasciato nel mare abbastanza prede per il tuo fabbisogno. La responsabilità della distruzione dell’equilibrio naturale del Mediterraneo è unicamente loro, e tu sei diventata un comodo capro espiatorio.

Oggi siete così poche che l’uomo della strada, persa l’esperienza e quindi la conoscenza della vostra specie, rimane sbalordito quando si parla dell’esistenza di foche in questa parte del mondo. «Foche nel Mediterraneo? — è la reazione tipica — Dai, non posso crederci. Le foche vivono solo nelle acque fredde». Così, oltre a tutto, ti viene persino negato il beneficio, per dubbio che sia, di essere compianta per la tua evitabile scomparsa.

Ti chiederai perché mai io sia così smanioso di vederti, perché abbia sviluppato nella mia mente un legame tanto speciale con l’idea quasi ossessiva di te. Forse, senza saperlo, quella che cercavo era l’idea astratta della foca monaca, il simbolo di una condizione di integrità che il mio mare sta perdendo per via dell’insensata capacità distruttiva della mia specie. Toccare con mano la tua esistenza avrebbe potuto rassicurarmi, attutendo così il senso di angoscia che mi assale nel constatare il crescente degrado.

Poi, in quel pomeriggio di mezza estate, ti sei manifestata quando meno me l’aspettavo. Non che avessi rinunciato a cercarti; la mia distrazione era solo momentanea. Ero seduto sul mio caicco ancorato nel ridosso di una scogliera nell’isola di Patmos, cullato dal dolce dondolio del mare. Alzati gli occhi per caso dal libro che stavo leggendo, mi sei apparsa davanti come una visione, con quella tua grossa testa tonda che emergeva lentamente dall’acqua, i lunghi baffi gocciolanti e una piccola inconfondibile macchia bianca tra gli occhi. Ciò che ricordo con maggior chiarezza è il tuo sguardo: grandi occhi scuri che mi fissavano, dritti nei miei, penetranti. Occhi che non sorridevano.

Ero incantato. Dopo la mia lunga ricerca, eccoti lì, ma solo quando avevi deciso tu di rivelarti — e in che luogo, poi, proprio nell’ombra dell’isola dell’Apocalisse, o della Rivelazione. Quella che avevo davanti agli occhi non era l’idea astratta della foca monaca, ma un essere reale. Un animale che respirava e che mi fissava in un contatto diretto, a tu per tu. Era chiaro che eri tu, e non io, nelle piene facoltà della tua personalità focina, ad avere il controllo della situazione. Fin da subito, mi colpì fin la triste asimmetria di quella condizione. Non sembravi avere la minima inclinazione a ricambiare la mia emozione affettuosa. Nella migliore delle ipotesi non te ne fregava niente di me. Dopo avermi scrutato con quello sguardo severo che sembrò durare un’eternità, con uno sbuffo e un brusco movimento sei scomparsa sott’acqua.

Pochi minuti dopo il tuo dorso emerse brevemente un centinaio di metri più in là, e dopo un po’ ancora più lontano, fino a quando non mi fu più possibile distinguerti dal riflesso della scogliera. Avevi ripreso a fare quello che le foche normalmente fanno: pattugliare il fondale in cerca di una misera preda, qualche avanzo lasciato dai tuoi prepotenti competitori umani. Ormai l’incanto dell’incontro era svanito del tutto.

Tante erano le cose che avrei voluto chiederti. Ma soprattutto volevo dirti quanto mi pesasse la consapevolezza del terribile torto inflitto al tuo popolo dai miei simili. Di quel momento ricordo soprattutto un ribollire di indignazione e la formulazione nella mia mente del proposito di fare del mio meglio, pur nel mio piccolo, per rimediare a quel torto. Per fare qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse contribuire a migliorare la tua condizione.

***

Circa sei milioni di anni fa, le placche continentali dell’Africa e dell’Eurasia, nei loro continui spostamenti, si avvicinarono l’una all’altra, tagliando fuori il Mediterraneo dal resto dell’oceano. Considerati i tempi geologici, sei milioni di anni sono un intervallo temporale relativamente breve, dato che l’età della Terra è stimata in quattro miliardi e mezzo di anni; se concentrassimo la vita del nostro pianeta in un arco di 24 ore, l’evento in cui il Mediterraneo divenne isolato sarebbe avvenuto non più di due minuti fa. Questo episodio, noto ai geologi come la Crisi di salinità messiniana, ebbe un effetto quasi letale sul Mediterraneo: isolato dall’oceano, a questo mare venne a mancare la possibilità di rimpiazzare l’acqua che gli veniva sottratta per evaporazione, il che lo portò — nel giro di poche centinaia di migliaia di anni — a prosciugarsi quasi del tutto, con solo qualche pozzanghera di salamoia super-concentrata rimasta sul fondo. Con la perdita delle sue acque, quasi tutti gli organismi marini originari dell’oceano primigenio che abitavano il Mediterraneo andarono estinti; le uniche specie che sopravvissero, soprattutto crostacei e molluschi, erano quelle in grado di resistere ai livelli estremi di salinità e temperatura derivanti dal catastrofico avvenimento. Poi, dopo un intervallo di 670 mila anni, le due placche continentali si mossero nuovamente, seppur di poco, e il collegamento con l’oceano mondiale venne a ricrearsi là dove oggi si trova lo Stretto di Gibilterra.

All’inizio di questo nuovo capitolo nella vita del Mediterraneo, homo sapiens non esisteva ancora. Era il tempo in cui i nostri antenati ominidi, ancora concentrati nel centro dell’Africa, si separarono dagli scimpanzé, e ben due milioni di anni prima che i loro vari discendenti australopitechi iniziassero a sperimentare con i primi strumenti di pietra. Il mondo dovette attendere altri tre milioni di anni per la fatidica apparizione della nostra specie. Prima di lei, migliaia di forme di vita animale — dai batteri alle balenottere — si erano stabilite nel Mediterraneo arrivando dall’Oceano Atlantico attraverso la spaccatura di Gibilterra. Qui, in queste acque accoglienti e dal clima mite, prosperarono evolvendosi in forme sempre più adattate e contribuendo, con la loro esistenza, al carattere e alla salute del loro ambiente marino e costiero, in una combinazione irripetibile e perfettamente equilibrata di ingredienti viventi e non viventi.

Quando gli esseri umani scoprirono le coste mediterranee durante le loro migrazioni fuori dall’Africa, alcuni di essi notarono le favorevoli condizioni ambientali offerte da quella sorta di terra promessa, e vi si stabilirono in permanenza. Queste condizioni si rivelarono essenziali per la loro prosperità. Non è un caso che il Mediterraneo sia conosciuto come la culla della civiltà occidentale: il suo ambiente creò lo sfondo contro il quale si svilupparono le società umane. Il Mediterraneo fu il potente ingrediente di una ricetta che plasmò i cittadini del mondo occidentale, il loro pensiero e le loro conquiste nel corso dei millenni che seguirono.

***

Gli organismi marini ebbero fondamentale importanza nello sviluppo delle culture umane mediterranee, sia come risorse alimentari sfruttabili sia come elementi integrati nei loro miti, consacrati nel folklore locale e protagonisti delle più svariate tradizioni e racconti, dalla Bibbia alla mitologia greca, dall’Odissea a Pinocchio. Tuttavia, non appena i nuovi arrivati iniziarono a tramandarsi storie sulle loro vicende, la narrazione umana si fece sempre più assorbita in sé stessa, offuscando i legittimi abitanti originari entro una nube sempre più rarefatta di irrilevanza. Nessuno dei rappresentanti della megafauna carismatica mediterranea neppure lontanamente è riuscito ad acquisire, per la nostra gente, il valore culturale che ad esempio hanno i dugonghi per gli Aborigeni australiani, le balene per i Maori, le orche per le prime nazioni del Pacifico canadese, e gli squali per molti Polinesiani.

Questa deriva si verificò quando il quadro culturale dei popoli mediterranei si distaccò progressivamente dalla natura, in netta divergenza da filosofie di altre parti del mondo come ad esempio il buddismo, il taoismo e il confucianesimo in Asia, che riconoscevano un universo in cui tutte le parti — compresi gli esseri umani — sono interdipendenti. Per quelle filosofie l’uomo è parte integrante del mondo naturale, animato da un senso di venerazione e rispetto per la natura della cui indivisibile armonia accetta di essere il custode. Nel Mediterraneo le cose andarono diversamente.

Le dottrine monoteiste qui emerse adottarono l’approccio opposto, ponendo perentoriamente gli esseri umani su un piedistallo di presunta superiorità sul resto del creato. Una volta autoproclamatisi padroni del mondo, gli uomini si assunsero il privilegio, come se fosse venuto dall’alto, di conquistare, dominare e sfruttare senza alcun obbligo di curarsi degli effetti che tale approccio aveva sulle condizioni del mondo naturale. Nella loro illusione di grandezza, gli uomini mediterranei non vedevano alcuna utilità nell’attribuire al mare e ai suoi abitanti non umani la dovuta attenzione e rispetto. Tale negligenza è diventata così diffusa nel corso dei millenni e così tipica del pensiero occidentale che persiste ancora oggi come il modo predominante di concepire il rapporto tra esseri umani e natura.

Questo testo è tratto da “Sailing Across a Wounded Sea”, l’ultimo libro di Giuseppe Notarbartolo (Springer, disponibile in lingua inglese): un viaggio intorno al Mediterraneo

L’autore
Nato a Venezia nel 1948, dopo la laurea in Biologia marina, Giuseppe Notarbartolo si è specializzato negli anni ’80 a San Diego presso lo Scripps Oceanography. In Italia ha insegnato in vari Atenei e co-fondato il Tethys Research Institute di Milano. È consulente di molte iniziative internazionali a salvaguardia dei mari

 

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