di Enzo Di Fazio
Per la quarta parte di “Fari e ricordi” del 3 agosto 2011 leggi qui
Riprendo a scrivere di “fari e ricordi” dopo una lunga pausa.
Nell’ultimo pezzo che aveva per titolo “il faro magico” cominciavo a dire del Faro della Guardia.
Lo facevo con l’abituale passione che mi prende ogniqualvolta parlo di fari e dei momenti vissuti
in luoghi permeati di cure ed attenzioni, dove il tempo scorreva lento e le giornate trascorrevano cariche di emozioni, di attese, di ansie, a volte anche di paure ma quasi sempre segnate da grandi conquiste formative.
Ne sono passati di mesi dal 3 agosto del 2011.
Nel frattempo il faro della Guardia ha fatto sempre più parte del nostro vivere quotidiano attraverso la campagna del Fai che l’ha portato all’attenzione di chi già l’amava, di chi ne aveva sentito appena parlare e di tanti che non lo conoscevano, consacrandolo luogo del cuore e ..dell’anima. (come qualcuno ha giustamente aggiunto), da salvare.
Il 3 agosto 2011 chiudevo il pezzo scrivendo…In questo posto magico mio padre, , trasferito da Zannone, arrivò per la prima volta il 27 novembre del 1954.
Riparto da qui raccontando i momenti in cui a casa venne resa nota la notizia del trasferimento.
Il pezzo, scritto a giugno di quest’anno lo avevo riposto in un cassetto, considerandolo troppo personale.
Spinto, poi, dalla passione nata intorno alla serata del 10 agosto ne avevo stralciato la parte relativa al ricordo del mio primo viaggio al faro affidandone la lettura a Beniamino Mazzella.
Le emozioni di quella serata, le considerazioni più recenti di Gennaro attraverso il pezzo “Quota 2000”, mi spingono oggi a riprendere quel racconto.
Non me ne vorranno i lettori se il passaggio del mio primo incontro con il faro viene riproposto nella circostanza.
Mi è indispensabile per continuare a parlare ancora di “fari e ricordi”
io e mio padre sul terrazzo del faro
Quella mattina mia madre, alzatasi come sempre di buon’ora, aveva messo sul fuoco la pentola con i fagioli a bollire.
Vi avrebbe poi aggiunto due “piedi” di scarola che, il giorno prima, aveva raccolto nel giardino di zia per ricavarne un piatto “importante” da mangiare a pranzo con mio padre che intorno a mezzogiorno sarebbe arrivato da Zannone.
Tornava a Ponza per fruire della consueta settimana di riposo dopo i quindici giorni di turno di guardia trascorsi al faro.
La giornata era fredda ma piena di sole.
Eravamo a novembre nei giorni della ricorrenza dei morti
Stavo fuori, nel cortile, tentando di attizzare con un ventaglio la carbonella sistemata con della pagliuzza e degli arbusti nel braciere. quando apparve mio padre nel vicoletto di sotto proveniente dal porto.
“Ue’ uagliò” mi disse sorridendo “che piacere che ce stai pure tu… tenghe ‘na bella nutizia..”
Mio padre sorrideva di rado, immerso com’era costantemente nei suoi pensieri e nei suoi silenzi.
Non era molto presente tra di noi per il lavoro che faceva e, per quello che possa io oggi ricordare, il sorriso era una espressione che mal si conciliava con la compostezza del suo sguardo.
Non che fosse cattivo – tutt’altro! – ma l’essere cresciuto praticamente senza padre (era rimasto orfano che aveva 3 anni) e l’essersi tuffato, per necessità, ancora ragazzo nel mondo del lavoro gli avevano scolpito sul volto un’aria un po’ severa che solo in poche occasioni si ammorbidiva.
Capitava, ad esempio, quando avvertiva, mentre pescavamo uno a poppa ed uno a prua sulla barca del faro, la “toccata” alla lenza tesa sul fondo tra le dita.
O, quando conquistava il punto definitivo per chiudere vittorioso una partita a scopa o a briscola che facevamo dopo cena seduti al tavolo di cucina al faro di Zannone sotto la fioca luce del lume a petrolio.
O quando, ancora, nelle sere d’estate, accarezzati dalla frescura della brezza marina, sul cortile del faro si giocava, grandi e piccoli, “alla torre dei mille gatti” (*)
Il sorriso, in effetti, si coniugava solo con i momenti di svago, mentre per il resto la vita doveva essere fatta di comportamenti seri la cui portata andava rafforzata anche con una impostazione austera del viso e dello sguardo.
Così spesso mi diceva . “Arricurdete, Enz’, c’a gente te giudica e te rispetta da comme te cumpuorte”
Entrò in cucina, si tolse il basco blu e, poggiandolo sul tavolo, dalla tasca interna del giubbotto cavò una lettera che, sorridendo, porse a mia madre dicendole ..
”ohi Ve’ (Velia) m’ anne trasferite…” e, con la voce bene impostata ed in perfetto italiano quasi a voler rafforzare l’importanza di quello che diceva, aggiunse “ il 27 di questo mese prendo servizio al faro della Guardia.”
Era molto atteso quel trasferimento…
Assunto a novembre del 1942 con assegnazione al faro di Marsala, aveva trascorso quasi otto anni in Sicilia tra i fari di Marsala, Trapani ed Augusta prima di arrivare a Ponza con destinazione Zannone.
Zannone aveva permesso, sì, l’ avvicinamento alla propria isola ed ai propri affetti ma, quantunque consentisse con la sua peculiarità di far vivere momenti unici e indimenticabili, rimaneva pur sempre un luogo disagiato, soprattutto d’inverno.
…E poi il faro della Guardia era il faro tra i più importanti d’Italia, era sicuramente il più importante del basso Tirreno, ed era anche il faro in cui aveva prestato servizio per tanti anni il nonno Silverio che ne aveva esaltato nei suoi racconti la grandiosità e la bellezza.
A tavola mio padre parlò come non mai.
Era proprio contento di quel trasferimento..
La nuova destinazione gli avrebbe consentito di stare a casa più spesso e di attendere, nell’alternanza dei turni con gli altri due guardiani, alle cure del piccolo giardino degli Scotti situato sulla strada che conduceva al faro.
Gli avrebbe anche permesso di stare più tempo con gli amici di sempre, primi fra tutti Totonno Tagliamonte (il maestro), Raffaele Perrotta ed Alfredo Tricoli.
Ero seduto alla sua sinistra.
Aspettavo con pazienza di incrociare il suo sguardo per cogliere l’opportunità di parlargli, quando all’improvviso sentii la sua mano sulla mia in una stretta a contenerla tutta
Contemporaneamente mi disse:
“Sai, Enzo, ‘u fare d’a Guardie tene ‘na lanterna enorme che gira cumme na giostrra e tene ‘a lampadina che nun cia faie neanche a’ abbraccia’ tante che è grosse…. ‘A primma occasione, appena sistemate , te porte…”
“’A primma occasione…”
Feci più caso a questa espressione che alla stranezza della lanterna che girava come una giostra..
”’A primme occasione” era sicuramente una promessa ma quando si sarebbe realizzata quell’occasione..?
Approfittai del momento in cui, per bere, portò il bicchiere alla bocca per chiedergli:
“maa…, ma papà quanne sarà ‘a primma occasione..?
E, lui, deciso: “Primme ‘i Natale, sta’ tranquille”
E così fu…
Enzo Di Fazio – novembre 2012 Fari e Ricordi (5) – Continua
- “Alla torre dei mille gatti” era un gioco molto semplice che coinvolgeva grandi e piccoli.
Si stava tutti seduti in circolo e il gioco era comandato da un capo, di norma scelto tra i grandi a sorte, che prendeva il nome di “capo gattone” (cap’iattone in dialetto); tutti gli altri assumevano un nome identificato ognuno con un numero diverso (1^ gatto, 2^ gatto, 3^ gatto e così via).
– Cominciava il gioco “cap’iattone” annunciando: – “Alla torre dei mille gatti 1^ gatto mi scappò” (ma poteva essere anche il 3^ o il 5^ o altro preso a caso);
– Il gatto chiamato in causa doveva essere pronto a rispondere e a non sbagliare il numero che lo identificava, dicendo: – “1^ gatto non fu”;
– Capogattone, di rimando, chiedeva: – “E chi fu?”
– Il gatto nominato doveva essere pronto a dire il nome di un altro gatto, per esempio: – “3^ gatto”
E si andava avanti così fino a quando non si incorreva in errore che poteva consistere nell’intervenire pur non essendo chiamato in causa o nell’intervenire in ritardo rispetto alla chiamata.
A questo punto chi aveva sbagliato “pagava pegno” con conseguenti risate e divertimento assicurati