proposto da Sandro Russo dalla lettura di due articoli, rispettivamente di Ezio Mauro e Marco Belpoliti. In due puntate
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In questi giorni di grandi eventi, il cataclisma di Valencia, le elezioni presidenziali americane abbiamo letto i giornali con maggior attenzione del solito, alla ricerca di chiavi di comprensione. Perché sono eventi troppo complessi per un singolo, specie se “pensatore in proprio”, aperto e non schierato.
Ho trovato illuminante il primo articolo di Ezio Mauro, su la Repubblica di domenica 3 novembre (quindi prima del risultato delle elezioni); anche rispetto al ruolo dell’informazione e dei giornali nel nostro piccolo, in Ponzaracconta ci poniamo lo stesso tipo di problematiche.
Marco Belpoliti ha scritto invece a partire dal fatti di Valencia e della contestazione dei reali e del primo ministro Sànchez, a tragedia consumata: su la Repubblica di ieri, martedì 5 novembre, un articolo tra la sociopolitica e l’antropologia.
Li ho trovati preziosi per me, quindi li partecipo ai lettori del sito che considero senza presunzione una comunità.
Statue of Liberty. Up-to-date (un’immagine che gira sul web)
Il commento
L’America che divide capitalismo e democrazia
di Ezio Mauro
Condannato dalla sua stessa natura, più ancora che dalla sua funzione, a essere lo specchio del Paese, il Washington Post anche questa volta, nel momento più alto dello scontro per la guida dell’America tra Harris e Trump, ha segnato un’epoca, come in molte occasioni significative del passato. Compito del giornale progressista della capitale, insieme e in concorrenza con il New York Times, era la segnalazione degli abusi del potere, l’informazione dei cittadini, la creazione di un’opinione pubblica reattiva e consapevole: insieme con la conferma che il giornalismo non è uno strumento tecnico al servizio di chi comanda, ma un soggetto autonomo e indipendente che svolge un’indagine permanente sui lati meno chiari della vicenda pubblica, coinvolgendo la redazione, i lettori e anche l’editore (portatore di interessi privati evidenti, legittimi e rilevanti) nel rispetto della sua storia e della sua lealtà professionale. Si può dire all’ingrosso che quando Post e NYT intervenivano schierandosi, ogni volta l’endorsement segnalava un elemento critico nella condotta del potere politico e un passo avanti nella difesa della libertà di stampa.
Questa volta bisogna prendere atto che il passo è indietro.
L’editore Jeff Bezos, proprietario di Amazon, ha interrotto una tradizione che dura dal 1976, sostenendo che gli endorsement presidenziali non spostano l’ago della bilancia di un’elezione, mentre invece “creano una percezione di parzialità e di mancata indipendenza”.
Proprio mentre ieri [2 novembre – l’articolo è del 3.11.2024 – ndr] l’editorial board del New York Times ha deciso un secondo intervento, con un invito diretto ai lettori a votare contro Trump “per mettere fine alla sua era”, visto “che ha cercato di rovesciare un’elezione e rimane una minaccia per la democrazia”.
Al Post la reazione è stata immediata. Ribellione dei redattori, dimissioni di editorialisti di rango, sconcerto dei lettori, con 200 mila abbonamenti al giornale disdettati in quattro giorni: a conferma di una legge universale secondo cui il nucleo identitario di un giornale coincide con il suo nucleo commerciale, in un contratto che si rinnova e si può disdire ogni giorno, garantito dalla sua storia e dalla sua anima, cioè dal suo carattere, che è ciò che i lettori non solo comprano, ma scelgono. Ecco perché violare l’anima di un giornale è agire contro la sua natura, al centro del patto con il lettore. Questa vicenda, quindi, ci dice come ogni giornale è un mondo che si è creato i suoi cittadini negli anni, vive del suo credito rispetto a loro e non è modificabile a comando. Ma in realtà il caso Washington Post ci dice qualcosa di più, ben oltre i confini del giornalismo, qualcosa su cui vale la pena riflettere.
Quando Trump immediatamente dopo aver vinto le elezioni del 2016 si voltò in diretta tv a cercare non i banchieri, gli imprenditori e i finanzieri, ma il forgotten man, l’escluso, il tagliato fuori, rivolgendogli una promessa rivoluzionaria («tu domani entrerai con me alla Casa Bianca»), lo schema socio-politico più immediato vedeva uno scambio elettorale tra la ribellione e l’inclusione, tra la protesta e il risarcimento politico, tra la rabbia sociale e la garanzia di una presidenza irregolare, incongrua, che prometteva di guidare il sistema contestandolo nei valori, nelle forme e nei modi, e alimentandosi nel rancore. Si avverava l’impossibile: il Capo della Repubblica americana che denunciava le regole su cui si reggeva l’istituzione invece di difenderle rafforzandola. Dietro la sagoma anch’essa atipica del presidente, allora come oggi ondeggia e preme la coalizione informale del popolo MAGA [iniziali di Make America Great Again – ndr], unito da un sogno di grandeur americano ispirato più alla rivincita che all’egemonia, all’egoismo nazionale piuttosto che a un verbo universale, ma con un nemico domestico comune: l’élite, accusata di confiscare il sapere, la conoscenza, l’esperienza, la competenza trasformandole in una gigantesca moneta di riserva, che circola, garantisce e privilegia una sola classe, spingendo gli esclusi a diffidare della scienza, a denunciare la medicina, e a rifugiarsi sotto lo stendardo terminale dell’ignoranza come unico valore veramente alternativo, sterile ma decontaminato, e dunque politicamente incandescente e tecnicamente rivoluzionario.
Oggi si sta compiendo qualcosa di nuovo, che potremmo chiamare lo “smottamento delle élite”. Come rivela l’intervento di Bezos (che non è trumpista dal punto di vista della convinzione ideologica, e forse non è nemmeno trumpiano come adesione politica), è in atto una neutralizzazione del pericolo politico di una presidenza Trump, un nuovo senso comune depotenziato e tollerante sui valori repubblicani di fondo, che consente alla parte più timorosa dell’élite nazionale di mettersi con le vele al vento.
Questi rami nuovi di potenziale consenso si innestano sul tronco principale dei votanti per Trump, la classe operaia bianca senza istruzione universitaria che lo sostiene al 67 per cento, insieme con la classe media benestante delle regioni rurali più povere, dove raccoglie il 65 per cento dei voti. Un consenso basato sull’industria manifatturiera e sull’agricoltura — quasi una moderna alleanza tra operai e contadini — , cristiani evangelici e cattolici, e che cresce quanto più si diventa vecchi, con il 35 per cento che sceglie Trump tra i 18 e i 29 anni e il 53 per cento oltre i 65. Mentre parla e convince questo ceto medio attivo, Trump com’è noto ha attirato una pioggia di contribuiti da miliardari, anche nella Silicon Valley che aveva sempre guardato ai democratici. Oggi la tecnologia diventa ideologia, l’innovazione cerca protezione e l’irruzione diretta nella corsa elettorale di miliardari come Elon Musk con un patrimonio netto maggiore del Pil di Paesi come il Portogallo pone evidenti problemi di equilibrio nella contesa per la Casa Bianca.
Com’è possibile che davanti a questa miscela tra populismo ed eversione l’establishment americano non faccia blocco, dimostrando di essere classe dirigente, e non soltanto dominante? La risposta l’ha data a Repubblica il politologo Robert Kagan, annunciando le sue dimissioni da editorialista del Post: «Il capitalismo non ha bisogno della democrazia per prosperare e fare profitti». È dunque cominciata la novità del secolo, cioè la divaricazione tra capitalismo e democrazia, che significa la fine dell’alleanza occidentale che ha protetto la modernità, vincolando a una prospettiva democratica il capitale, il lavoro, il welfare e la rappresentanza? Non finirebbe soltanto un’epoca, ma una civiltà.
È già successo nel febbraio 1922, con la profezia di Mussolini che nessuno sembra ricordare: «È finito il secolo democratico, il secolo del numero, della maggioranza e della quantità. Gli succede un secolo aristocratico, lo Stato di tutti torna a essere di pochi, pochi ed eletti. Può darsi che nel secolo scorso il capitalismo avesse bisogno della democrazia: oggi può farne a meno».
La posta in gioco nel voto americano arriva dunque fin qui, fino all’ipotesi conclusiva della destra: impedire con il voto che la democrazia mantenga consenso nel popolo, sottolineando la sua fragilità e la sua complessità, per ridurla a creatura del Novecento e confinarla in un passato da superare e risolvere nel nuovo scambio tra un potere forte e il cittadino debole, ma deresponsabilizzato da una delega totale che lo trasforma davanti alla società: liberato da ogni vincolo pubblico, invece che libero di esprimere le sue facoltà. Ecco perché il voto americano ci riguarda tutti, così come il caso Washington Post ci interpella direttamente.
Abbiamo capito che un endorsement non salva il mondo: ma l’ordine a un giornale di contravvenire alla sua libera natura ci fa comprendere che mondo ci aspetta.
[Di Ezio Mauro, da la Repubblica del 3 novembre 2024]
[Perché il peggio prevale. Quanto si impara dai maestri (1). Continua: l’articolo di Marco Belpoliti sarà pubblicato domani sul sito]