proposta da Sandro Russo
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La (non tanto) pigra esistenza del casale dove vivo è stata movimentata la settimana scorsa dal passaggio di ospiti particolari, arrivati per vie del tutto improbabili.
Sono Marco Màdana, musicista girovago (ma colto, da conservatorio) tra l’India, la Croazia, la Sardegna, esperto di religione e cultura indiana, un passato – forse un futuro – di monaco in India.
E Vittoria Jaya, anche lei musicista, ma anche educatrice e animatrice, di origini siciliane, al momento residente in una casa di campagna con animali sulle colline intorno a Torino, approdata al casale per amicizia con Marco, e presto “aggregata” anche lei.
Riconosco ‘a pelle’ le persone affini e anche il casale le riconosce; come loro reciprocamente si ritrovano nel mio modo di vivere, nei gesti quotidiani, nei luoghi, anche nelle piante e gli animali che ci sono intorno. Non che siano persone simili a me, piuttosto ci riconosciamo come alter ego protagonisti di vite possibili, esistenze che avremmo potuto vivere per un diverso lancio di dadi, “uscite” diverse nella roulette spazio-temporale.
La temporanea frequentazione ha qualche influenza sulla routine quotidiana e ovviamente sul giro dei pensieri suscitati.
Con Marco Màdana abbiamo parlato (e scritto) del modo indiano di intendere “il senso della vita”; abbiamo parlato della sua musica e fatto pratica (io) con l’organetto che ho ripreso a suonare dopo una interruzione di oltre trent’anni.
Insieme, con Marco Màdana e Vittoria, abbiamo girato per paesini e per mercati, cucinato cose buone e raccontato frammenti sparsi delle nostre vite.
L’India è stato spessa al centro dei nostri discorsi… Marco la conosce benissimo per esserci vissuto, io la conosco da viaggiatore e Vittoria per niente, anche se sente per essa una forte attrazione (come anche per la cultura zingara). E quando le ho chiesto perché avesse aggiunto al suo nome – già abbastanza complesso con un cognome doppio -, il nick name Jaya, mi ha detto che nella lingua indiana significa “vittoria”.
Se mettiamo insieme i vari frammenti dei giorni della settimana trascorsa insieme, ne viene fuori quasi per il risultato di un’addizione aritmetica la canzone che propongo per questa domenica: Govinda, del gruppo inglese dei Kula Shaker, tanto più che Marco Màdana ha detto di aver conosciuto il loro cantante e leader in un ashram in India e di averne avuto un’impressione positiva, di uno che non si dava arie.
I Kula Shaker nascono, nella loro formazione definitiva, con un altro nome – Kays -, da musicisti provenienti da diverse formazioni della scena londinese fin dal 1988, e un leader riconosciuto in Crispian Mills, chitarrista e cantante londinese, figlio d’arte. La storia personale di Crispian Mills è interessante. Nel 1993 intraprende, zaino in spalla, un intenso viaggio in India e rimane affascinato dalla spiritualità induista. Tornato in patria, fonda appunto i Kays.
Dopo due anni di tour e registrazioni, i Kays decidono di cambiare nome e direzione musicale. Anche sulla scorta delle proprie letture filosofiche e del suo crescente interesse per il misticismo indiano, Mills propone di sviluppare sonorità impregnate di maggiore spiritualismo e caratterizzate dall’utilizzo di strumenti musicali indiani, da mescolare con il sound rock occidentale e con la psychedelic rock degli anni ’60. Nel maggio 1995 Mills suggerisce il nome Kula Shaker, ispirato al nome di Kulacēkaraṉ, uno dei dodici āḻvār, gruppo di poeti e mistici hindu.
Govinda è il quarto singolo dei Kula Shaker, tratto dal loro album di debutto, K. Pubblicato nel novembre 1996, ha raggiunto la settima posizione nelle classifica dei singoli del Regno Unito, finora unica canzone in sanscrito ad entrare nelle prime dieci posizioni della graduatoria. La canzone presenta anche l’uso di strumenti musicali della tradizione indiana quali tabla e tambura.
Govinda è uno dei nomi, in lingua sanscrita, con cui viene appellato Kṛṣṇa (o anche Visnù). Letteralmente significa il guardiano delle vacche, o colui che protegge la mandria.
Jaya, parola che in lingua sanscrita significa “vittoria”
Il testo è basato su una tradizionale invocazione a Kṛṣṇa/Visnù. La stessa invocazione è stata usata per un brano registrato da George Harrison nel 1970, ma con musica completamente diversa (le informazioni più tecniche sul gruppo e sulla canzone sono tratte da Wikipedia)
Il videoclip, piuttosto suggestivo, diretto da Michael Geoghegan, alterna immagini della band con quelle di Kṛṣṇa e delle gopī. Gopī è un sostantivo femminile sanscrito il cui significato è “mandriana”, “mungitrice”.
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