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 Viaggio in Uzbekistan (2). Il blu come vertigine

di Patrizia Maccotta

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Verso il blu! Si parte dalla moderna stazione di Tashkent con un treno ad alta velocità, dal nome intrigante, “Afrosiyda”, verso la città simbolo dell’Uzbekistan che raggiungeremo in poco più di due ore. Certo non è come percorrere la via della seta in carovana, ma bisogna riconoscere che è certamente più comodo!

Samarcanda si presenta subito come una città più caotica, malgrado i grandi viali ed i palazzi in stile sovietico con ornamenti islameggianti, più “orientale”, se i suoni ed i colori definiscono l’Oriente, rispetto alla capitale odierna. La grande piazza –  chiamata come tutte le grandi piazze che incontreremo “Regi Stan”: Regi vuol dire ‘sabbia’ e Stan significa ‘Piazza’ – troneggia ormai su tutte le riviste di viaggi.
La sua moschea dedicata a Bibikhanoum, la moglie preferita di Tamerlano, le cupole, le altissime pareti che costituiscono i portali delle sue tre madrase, ovvero scuole coraniche, la piazza ci avvolge in tutte le sfumature del blu.

Non c’è un solo spazio che non sia conquistato dalle meravigliose maioliche  dai colori  turchese, indaco, blu scuro, celeste, azzurro, blu pavone, blu turchese, blu cobalto, blu oltremare scuro e chiaro, blu zaffiro, blu d’oriente, con qualche intruso in giallo e verde.
Non essendo consentita la riproduzione delle figure umane dalla religione islamica, sono le forme geometriche, i rombi, i triangoli, le linee che si incrociano, che danno corpo a tutte queste tonalità.

Samarcanda. Piazza Regi Stan

Samarcanda. Necropoli Shashi Zinda

Una vertigine! Sì, l’azzurro diventa una vertigine che ci coglie ovunque ci siano dei monumenti. Le cupole si stagliano sul cielo unicamente perché lo smalto che le ricopre brilla di più. Ed è così pure alla necropoli di Shashi Zinda interamente ricoperta da maioliche del XV secolo che scintillano al sole, ovvero che brillano sotto le stelle visto che uno dei nipoti che succedette a  Tamerlano, Mirzo, scrutava il cielo notturno e fece costruire un osservatorio per studiare gli astri poco lontano dalla città. A Samarcanda si trova pure il laboratorio dove fu riscoperto l’antico segreto della fabbrica del gelso che mi guida nei miei ricordi.

La città  racchiude ormai il suo tesoro turchino in mezzo ad innumerevoli palazzi. Curiose colline di argilla beige rosate si introducono all’improvviso nei viali e nelle piazze ed affiancano le mura che sono state ricostruite.

Un tappeto volante, che i nostri occhi occidentali vedono miseramente come un pullman, ci solleva in seguito per portarci a Bukhara. Il paesaggio è agricolo e verde. Tra i frutteti e le coltivazioni si distinguono i campi del cotone di cui la nazione è produttrice. I soffici batuffoli bianchi sono, purtroppo, appena dischiusi e non ci è dato di ammirare i campi che sembreranno in seguito  coperti di neve.

Bukhara ha un centro storico compatto. Ritroviamo una Regi Stan con molti gelsi che ci introduce alla città vecchia, nel Gran Bazar che consiste in tanti spazi ricoperti da un susseguirsi di cupole, all’altra grande piazza dove troneggia l’altissimo minareto Kalyon del XII secolo che con i suoi 50 metri era un faro per le carovane.

Minareto a Kalyon

La leggenda racconta che Gengis Khan, giunto a Bukhara nel 1 220 per distruggerla, rimase così colpito dallo splendore del minareto che lo risparmiò. Poco fuori, si erge la cittadella fortificata, l’Ark, con l’appartamento dell’emiro e le stanze per il suo Harem. Di fronte, si riflette in uno specchio d’acqua la settecentesca moschea Bolo Hanz con le sue sottili colonne in legno dipinto e i suoi capitelli ad alveoli dai colori molteplici. Nella città che ospitava le carovane rimane una comunità ebraica che una legenda colloca in quel luogo in seguito alla diaspora avvenuta alla fine della cattività babilonese, nel VI secolo a.C.. Bukhara è stata comunque il primo insediamento ebraico in Asia centrale. E’ immancabile una sosta in un grande negozio che vende i celebri tappeti dai rossi scuri.

Bukhara. Moschea dalle colonne di legno con capitelli ad alveoli. Bolo Houz

Moschea di Bukkara

Maioliche delle moschee di Bukkara

Rosso è pure chiamato il deserto che si attraversa l’indomani. Ma ci sembra piuttosto una steppa dal colore sabbia/ arancio. 480 km prima di arrivare alla città rifugio delle carovane che seguiamo con l’immaginazione lungo il nostro percorso: Khiva.
Delle mura color sabbia, straordinariamente lisce e compatte, alte 10 metri, circondano il vecchio centro restaurato, patrimonio dell’Unesco dal 1992.
La città è rimasta intatta dal XVI secolo. Conserva numerosi edifici monumentali ed ha un’impronta più araba che asiatica. Stranamente le sue mura color sabbia dorata mi fanno pensare alle mura della città di Avila, in Spagna, che appartengono ad una realtà totalmente diversa.

Qui si passeggia nel passato.  Si trova un minareto incompiuto, diverso, non svetta come gli altri e che sembra più un grosso torrione corto. Qui le mosche e le madrase, perfino l’harem, mescolano il colore della sabbia alle tonalità dell’azzurro.

Le mura di Khiva

Harem di Khiva

Minareto a Khiva

Mi accorgo che sto parlando solo di pietre … e gli esseri umani? E la tradizione culinaria? Ed i compagni di viaggio?

Gli Uzbeki sono belli; hanno capelli lisci, lucidi e scuri. I loro occhi mongoli sono sorridenti. Come le loro città hanno un qualcosa di sovietico nel loro approccio agli stranieri: sembrano, malgrado i sorrisi, seri e rigorosi. Le donne non sono costrette a portare il velo – la nazione è una repubblica laica –  è una loro personale decisione e quando lo portano sui capelli rialzati sembrano più turbanti colorati.

Nell’antichità i loro khan portavano vestiti in stoffe preziose di seta e cotone chiamate Itak e le donne abiti in una seta ricamata, chiamata Suzami, che hanno ispirato i dipinti di Matisse il cui padre era un commerciante di stoffe. Oggi una certa ricerca nei colori e nei motivi rimane sui loro vestiti.

Il cibo è saporito e genuino: molto riso e molte verdure che si ritrovano nel piatto nazionale, il Plov.
Allegri, simpatici tutti i compagni di viaggio, senza eccezione;  tranquillo ed efficiente il nostro accompagnatore che rappresentava l’agenzia Fuada Tour, Donato Monticelli.Il viaggio si chiude sul canto del Muezzin che si è alzato nella notte della nostra ultima cena su una grande terrazza. L’azzurro rimarrà a lungo nei nostri occhi.

Uzbekistan… tutte le sfumature del blu, ma mi ha avvolta nel mistero molto di più il Lago Maggiore (leggi qui). Anche se non avrei mai voluto lasciare l’Uzbekistan che mi ha riportato alla vita più lenta, rilassata, di cinquanta anni fa.
Qui in Italia, tutto corre freneticamente, compresi noi, e non si assapora più nulla.
Nessuna ‘ariaccia’ in Uzbekistan: ordine e fiori. E forte, fortissima impronta sovietica.
Malgrado le innumerevoli cupole, i grandi minareti, rimane un paese laico. I veli sono svolazzanti, su capelli rialzati, e svettano come turbanti. Sono tutti colorati, mille colori, e gonne larghe, variopinte, che ballano intorno ai corpi. Volti mongoli con occhi a fessura ridenti e belle, bellissime labbra. Un misto di modernità ed arretratezza insieme! Non sarei mai tornata.

[Viaggio in Uzbekistan. (2) – Fine]
Per la prima parte, leggi qui

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