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Esiste in Spagna un certo tipo di cinema, sconosciuto ai più, ed esiste alla Mostra di Venezia una sezione geniale: Orizzonti. Quando i due universi si incontrano capita che piccoli gioielli come Marco, destinati al godimento di pochi, arrivino a sorprendere un pubblico più grande e che qualche giornalista si avventuri sotto il caldo infuocato del Lido, per venire a conoscere gli autori nello spazio assolato accanto all’Hotel Des Bains, ormai in disuso.
Aitor Arregi e Jon Garaño, i registi del film Marco
Aitor Arregi, Jon Garaño e José Mari Goenaga registi, sceneggiatori e produttori, raccontano una storia che, pur ambientata in Catalogna fuori dai loro Paesi Baschi, continua a scavare, come tutto il loro cinema, nelle zone in ombra della storia spagnola recente e nei misteri della natura umana.
Misterioso di sicuro è il protagonista, interpretato da uno straordinario Eduard Fernandéz: un vitalissimo signore che per molti anni ha fatto credere, non solo all’opinione pubblica, ma alla sua stessa famiglia, di essere stato prigioniero nel campo di concentramento nazista di Flossenbürg.
Carismatico, affabulatore, ammirato per il suo coraggio, Enric Marco viene eletto presidente dell’Associazione Spagnola delle Vittime dell’Olocausto. Fino al giorno in cui un giovane storico scopre che il suo racconto è totalmente inventato.
Marco, l’attore Eduard Fernandéz
Eccoci qui con Aitor Arregi, una bella barba bianca e occhi da Mago Merlino e Jon Garaño, barba scura e sguardo profondo. Immuni, sembrano, al caldo infuocato di questo spazio all’aperto dove molti si accasciano ai margini sventolando ventagli. Bruciano di una passione sotterranea che traspare evidente negli occhi di Aitor e rimane più celata dietro il sorriso e i modi composti di Jon. Sono loro i due registi del film e José Mari è lo sceneggiatore.
La triade, infatti, ha un modo tutto suo di lavorare che Aitor ci tiene a spiegare con orgoglio: loro tre si sono conosciuti venticinque anni fa e già dal primo corto, girato in grande spirito di collaborazione, hanno adottato un metodo di lavoro sui generis.
A seconda del progetto, due si occupano della regia e il terzo della sceneggiatura, alternandosi.
Sorride come se stesse offrendo all’ascoltatore accaldato una ricetta segreta, un metodo di lavoro caldamente consigliato a tutti. Sciorina i titoli dei loro film indicando di volta in volta, puntigliosamente, chi sono i registi e chi lo sceneggiatore. Per non creare fraintendimenti e dare merito a ciascuno.
– Soltanto ne La Trincea Infinita eravamo tutti e tre alla regia. Ma …abbiamo capito che è troppo” strizza l’occhio divertito – e siamo tornati al due più uno.
Una formula con cui hanno girato corti, lungometraggi, documentari, e ora anche una serie su Disney+ sull’enigmatica figura dello stilista Balenciaga, vincendo Premi Goya e candidature agli Oscar.
E se sfuggente è la figura di Balenciaga, non lo è certo da meno Enric Marco, che non ha risparmiato i suoi inganni neanche ai nostri registi. Tra bugie, battute d’arresto e tradimenti, la lavorazione del film è durata diciotto anni. Non c’è dunque da stupirsi del loro sollievo per l’opera finita ora che Marco, deceduto da poco, all’età di 101 anni, non potrà escogitare nuovi tranelli.
Aitor espone con slancio la travagliata vicenda, lasciando spazio a Jon che perfeziona il racconto con pochi tocchi pacati, in una prova di collaudata collaborazione: quando, nel 2005, viene fuori lo scandalo sulla sua vera identità, il finto deportato, invece di murarsi in casa per la vergogna, accorre ad ogni programma di radio e Tv per dare vita a nuove varianti del suo personaggio.
A quel punto la triade propone ad Enric Marco di girare un documentario su di lui. Proposta che l’interessato accoglie con enorme entusiasmo.
– Iniziamo a vederci e a registrare interviste, tutto va a gonfie vele, finché un bel giorno ci comunica che deve allontanarsi per andare a recuperare, in Germania, certi documenti a prova del suo soggiorno in carcere. Ci sembra interessante, gli chiediamo che ce ne parli, ma lui si scusa dicendo che si tratta di questioni personali. Parte e… non lo vediamo più… Dopo abbiamo scoperto che era in Germania a girare un altro documentario, con altra gente.
Il documentario appare anche nel film che, in un gioco di specchi con un personaggio tanto manipolatore, usa materiali d’archivio e pura finzione, all’inizio separati e poi, via via, sempre più difficili da distinguere.
– Anni dopo, nel 2010, al Festival di San Sebastián ce lo vediamo spuntare davanti. Ci porta in omaggio la butifarra… – L’insaccato di maiale tipico della Catalogna di cui il protagonista, nel corso del film, fa omaggio a chiunque possa aiutarlo nella sua ambizione – “…e ci chiede di riprendere il discorso del documentario. Non era soddisfatto del precedente e ne voleva uno migliore. Superato lo shock iniziale lo abbiamo inchiodato per tre giorni serrati di interviste. Senza mai mollarlo. Ma non c’era verso di farlo rispondere alle nostre domande, scantonava. Dovevamo marcarlo stretto e anche così non funzionava.
– E avete continuato a fidarvi di lui? – Chiede il giornalista stupito.
Jon prende il suo tempo per rispondere. È una domanda importante che riguarda l’essenza stessa del loro cinema.
– Oltre a raccontare la vicenda a noi interessava soprattutto capire: perché ha fatto quello che ha fatto? Un’enormità fingere su un tale orrore. E perché, una volta scoperto, è rimasto afferrato al suo personaggio? C’era un aspetto picaresco nel suo dannarsi per la fama.
Nel silenzio le domande restano sospese nell’aria.
– Certo la vanità ha il suo peso – riprende il filo Jon – Ma credo che a muoverlo fosse soprattutto il bisogno di uscire dalla sua vita grigia. Essere amato, rispettato e ammirato. Aveva scoperto di avere un grande potere con le parole, raccontava storie appassionanti e non accettava di uscire di scena. Non è poi diverso dal bisogno di ammirazione che oggi dilaga sui social media. Tutti vogliono sembrare migliori di quello che sono”.
Mentre cercano di spiegare il loro personaggio, Aitor e Jon sanno che, nonostante tutto, il mistero è rimasto tale. Al di là dei molteplici inganni e delle risposte elusive, non possono negare che Enric Marco, con la sua manipolazione, abbia dato voce ai sopravvissuti spagnoli ai campi di concentramento nazista che la loro patria ha costretto al silenzio.
Finita la Seconda Guerra Mondiale, Franco ne ha impedito il ritorno a casa, costringendoli a restare in Francia.
Enric Marco ha colto, in questa vergognosa zona di silenzio, la sua possibilità. Ha dato loro voce nelle scuole, nelle università e ovunque. Nel 2005, grazie alla sua tenacia, per la prima volta, dopo 60 anni dalla fine della guerra, il parlamento spagnolo ha aperto le sue porte ad un sopravvissuto. Che non lo fosse si è scoperto solo dopo.
– Il nostro Paese ha difficoltà a fare i conti con il passato. Molti non vogliono che si dica che c’è stata una dittatura – spiega Aitor – Noi invece vogliamo ricordare.
Difficile trovare il tono giusto per raccontare una storia così complessa.
Dall’idea iniziale del documentario sono passati alla forma ibrida e poi alla pura finzione. Chi meglio del cinema può raccontare il gioco infinito di verità e menzogna nelle nostre vite?
– Ci siamo interrogati sulla prospettiva da cui raccontarla. Il punto di vista di Marco? O piuttosto quello di un occhio esterno? Non potevamo assolvere il nostro personaggio… Come fanno, nella realtà, moglie e figlia di Enric Marco ed è un peccato che nella sfera personale del personaggio il film poco si addentri. – Ma neanche giudicarlo altrimenti la storia sarebbe nata zoppa. Così abbiamo optato per un punto di vista intermedio. Lasciamo che sia lo spettatore a decidere.
I giornalisti, avventuratisi sotto il sole rovente per discutere di questo grande mistero, si allontanano pensierosi tra la folla dei viali della Mostra dove tutti scattano foto. Dove tutti si mettono in posa per farsi vedere, guardare e ammirare. Vanità della vanità.
Il film uscirà nelle sale italiane e magari qualcuno tra gli spettatori troverà una chiave, o un indizio tra il materiale d’archivio, che aiuti a capire il mistero di questo bisogno d’amore che solo l’ammirazione sembra appagare e che i diciotto anni di lavoro non son riusciti a svelare.