di Francesco De Luca
La ‘restanza’. Quando Antonia De Michele, la giovane antropologa che si sta interessando alle vicende della comunità di Ponza, di cui si è scritto, e che ritornerà a rivederci a settembre, in un colloquio mi parlò della ‘restanza’, io rimasi colpito dal vocabolo. Non l’ avevo mai sentito, eppure dentro di me da tempo era incubato. Nella mia ignoranza, anni fa, chiamai ciò che genera nei sentimenti la vita sull’isola, lo chiamai ‘isolaitudine’. Un vocabolo con un significato specifico che elaborai in un libro. Per cui sentir parlare di ‘restanza’ come “radicamento e fuga, stanzialità e viaggio, abbandono e ricostruzione dei luoghi “ ( pag. 137 – Vito Teti – La restanza) mi catturò. Ho comprato e letto il testo di Vito Teti – Einaudi – Torino 2022 ).
Penso sia una lettura fondamentale per chi ha a cuore la situazione che stanno affrontando tutti i piccoli paesi, ricchi di tradizioni e soggetti all’inesorabile spopolamento. Ponza non ne è esente, e il Sito Ponza-racconta in questi ultimi anni ha ospitato articoli accorati, nostalgici talvolta, e scettici, sull’assottigliamento della popolazione residente nei mesi che non sono quelli estivi. Giacché questi sono tutti inesorabilmente indirizzati all’organizzazione turistica. Il risultato, già percepibile, è lo snaturamento della residenza sull’isola. Ritenuta invivibile, pigra, morta, insicura.
Il professore Teti sviscera la gamma delle situazioni in cui la ‘restanza’ diviene cocente, e lo fa con passione. Se ne avverte la partecipazione.
A noi, a noi Ponzesi dico, può indicare qualche strada per invertire la direzione. L’amica De Michele, a questo aspira: trovare, negli isolani, intenti che ostacolino l’abbandono. La sua aspirazione è degna di rispetto.
Mi permetto, per contribuire a chiarire la problematica, di riportare quanto scritto da Teti alle pp. 49-50: “Ogni paese, ogni frazione, ogni villaggio – anche quello con un solo abitante – ha il diritto all’esistenza… Questo significa che non può esistere un paese, anche il più piccolo, senza centri culturali, luoghi di socialità, e, soprattutto, senza scuole ”.
Sottolineo questi aspetti per ribadire quello che a me appare un grande impedimento alla presa di coscienza del problema: la mancanza di coscienza. Manca, a mio vedere, la consapevolezza di come la realtà isolana sia dipendente da fattori esterni all’isola, alla sua cultura, alla sua aspirazione. Sono determinanti. Si pensi alla fluttuazione del mercato economico, alla configurazione che sta assumendo il fenomeno turistico, alla labilità della meteorologia, alla causalità delle concomitanze. Sono fattori che possono essere ostacolati da una struttura organizzativa turistica forte, ben piantata sull’isola, in grado di programmare le debite rimodulazioni.
Ci sono poi i fattori interni all’isola. Alla presenza dei residenti, alla lungimiranza della classe politica, alla sensibilità della società civile.
Interrelare la moltitudine dei fattori è impegno gravoso. Non soltanto Amministrativamente (politica) ma anche concettualmente.Si ha bisogno di tanta conoscenza. Che, se non c’è sull’ isola, certamente è presente presso le Università e presso le Istituzioni culturali che trattano queste problematiche.
La ‘restanza’ ha bisogno della passione a rimanere nel luogo natìo insieme alle competenze per coniugare le necessità dello ‘stare’ con la mobilità dell’adattamento, con le esigenze di rispettare il territorio e la produzione culturale che si è generata ‘dentro’ e ‘intorno’.
C’è da auspicare un concorso fruttifero fra le Istituzioni e le Imprese, fra il Pubblico e il Privato.
Questo, per la parte teorica. Per quella pratica occorrerebbe incontrarsi in tavoli ove scambiarsi opinioni, intenti, progetti e finanze.
NdR: la foto di copertina è di Rossano Di Loreto