segnalato dalla Redazione, da il Manifesto
Cultura
Mondi fantastici che evocano il reale
di Tommaso Pincio – da Il Manifesto del 2 luglio 2024
Ritratti. Addio allo scrittore albanese Ismail Kadare, morto a Tirana a 88 anni, dopo un lungo esilio in Francia. L’ultimo suo libro, «Quando un dittatore chiama», uscirà in Italia a ottobre, per La Nave di Teseo. È stato il Dante dell’Albania per come la sua vicenda personale e i suoi romanzi sono intrecciati a filo doppio con la storia del Paese, diventandone l’emblema imprescindibile
«C’è un’ora di Dante proprio come ci sono un pomeriggio, un’alba e una sera. È il momento in cui i popoli, i governi, i regni, le repubbliche, le razze e le diverse lingue si imbattono in Dante dopo aver proceduto di lui per anni». Tratta da un pamphlet in cui la figura del sommo poeta e la sua opera, a cominciare ovviamente dalla Divina commedia, venivano intrecciate alla storia dell’Albania, questa frase acquista un significato diverso ora che il suo autore è scomparso. Trasportato a un ospedale di Tirana per un attacco cardiaco, Ismail Kadare è stato dichiarato morto alle otto e quaranta del primo luglio 2024 dai medici che hanno cercato di rianimarne il corpo senza più segni vita. Aveva ottantotto anni durante i quali ha proceduto verso la morte finché non si è imbattuto in lei.
Il modo in cui ha definito quella che chiamava l’ora di Dante sarebbe una definizione perfetta verso cui tutti procedono. Non per niente quel pamphlet si intitola Dante, l’inevitabile. Seppur con le debite proporzioni, Kadare è stato il Dante moderno dell’Albania e non soltanto per come la sua vicenda personale e i suoi libri sono intrecciati a filo doppio con la storia del paese, diventandone l’emblema imprescindibile. Kadare aveva in comune con Dante il destino e il metodo o, per meglio dire, la poetica. Era cioè uno scrittore in cui la preponderanza del simbolo e a volte anche dell’allegoria era tale da generare non di rado mondi fantastici o comunque sospesi che parlavano comunque di questo mondo, anzi della sua terra tormentata, dove il sangue è scorso a fiumi nei secoli. Come in Dante e in altri autori cui è stato accostato – Kafka, Orwell, Kundera – mito e storia erano facce opposte ma coincidenti di una stessa medaglia.
L’esempio più eloquente in questo senso è Il palazzo dei sogni del 1981, romanzo allegorico il cui giovane protagonista, discendente di un’illustre famiglia dell’impero più o meno immaginario inizia la sua carriera di funzionario in un organismo segreto e terrificante preposto a raccogliere fin nelle più sperdute province i sogni di tutta la popolazione, per poi radunarli, classificarli e interpretarli al fine di isolare una serie di sogni-guida, suscettibili di annunciare il destino del regime e del suo tiranno. Non era difficile scorgervi delle allusioni al governo dispotico dell’Albania e infatti il libro venne vietato nel giro di poche ore.
Immaginarsi Kadare come un semplice oppositore sarebbe però uno sbaglio. La sua posizione rispetto al potere è stata a lungo oggetto di controversie. Oltre agli ammiratori che elogiavano il suo coraggio nel denunciare gli orrori del regime comunista, c’era chi lo accusava di essere un uomo di ben altra natura che avrebbe occultato la sua complicità con il governo, modificando opportunamente alcune sue opere a partire dal 1990, pochi mesi prima del crollo del governo albanese, quando riparò in Francia.
L’attacco più virulento fu sferrato da Irina Renata Dumitrascu, figlia di un dissidente romeno emigrato negli Stati Uniti che all’indomani del conferimento del Man Booker International Prize nel 2005 scrisse: «Non è Solženicyn e non lo è mai stato», accusandolo di essere un astuto camaleonte, che vestiva «i panni del ribelle per eccitare gli ingegni occidentali in cerca di voci di dissidenti che venivano dall’est. Ma non c’è assolutamente alcun dubbio su che tipo di animale fosse e con quale branco corresse».
Kadare non rimase in silenzio. Ribatté di non avere mai dichiarato di essere un dissidente nel senso stretto del termine. Sosteneva che l’opposizione aperta e dichiarata al regime di Hoxha, come del resto a quella di Stalin in Russia, fosse «semplicemente impossibile». Era invece praticabile una «molto evidente forma di resistenza al regime» quale quella dei suoi libri. Alla luce di tutto ciò, acquista un significato simbolico il fatto che Kadare fosse nato a Argirocastro, città fortezza ottomana non lontana dal confine con la Grecia, e cresciuto nella stessa strada in cui, una generazione prima, aveva vissuto Hoxha, leader supremo dell’Albania.
A Hoxha dedicò anche un romanzo da noi ancora inedito, Il grande inverno (1977), in cui celebrava la rottura del governo con l’Unione Sovietica. Lo scrisse per placare il regime, che lo teneva d’occhio. Kadare si è poi giustificato spiegando che aveva tre possibilità: «Conformarmi alle mie convinzioni, che significava la morte; il silenzio totale, che significava un altro tipo di morte; o pagare un tributo, una tangente». Scelse la terza soluzione, Il grande inverno, che resta comunque un grande romanzo dove la critica al regime è presente in maniera criptica, a cominciare dall’inverno, che per Kadare è un simbolo della dura vita che si conduceva in Albania.
Con il tempo, dopo il trasferimento in Francia e una più esplicita opera di opposizione, la polemica sulla vera di natura di Kadare si è sopita e opere come I tamburi della pioggia hanno cominciato a essere apprezzate per il loro valore puramente letterario, malgrado anche questo romanzo epico sia presente in filigrana il dramma di un paese, con il racconto di un assedio condotto dall’esercito turco nel XV secolo ai danni di una cittadella albanese e la strenua difesa della propria indipendenza e libertà da parte degli assaliti.
Kadare ha d’altra parte ribadito a più riprese di non essere «uno scrittore politico e, inoltre, che per quanto riguarda la vera letteratura, in realtà non esistono scrittori politici. Penso che la mia scrittura non sia più politica del teatro greco antico. Sarei diventato lo scrittore che sono in qualsiasi regime politico». Forse il libro in cui questo suo lato emerge al meglio è Il generale dell’armata morta, romanzo per certi versi dantesco. La storia è quella di un generale italiano che viene mandato in Albania per riportare in patria i corpi dei soldati caduti durante la Seconda guerra mondiale. Il viaggio è una discesa negli inferi freddi e fangosi dell’entroterra balcanico, dove gli orrori riemergono dalla terra insieme ai cadaveri per funestare il presente.
Malgrado il contesto sia molto preciso e riconoscibile, il romanzo è anch’esso sospeso in uno strano limbo dove il tempo e la storia non sono che accidenti e il generale italiano ha la malinconia di certi eroi antichi, anche se tutto fuorché un eroe mentre vaga a caccia di morti in un paese straniero: «Spesso, di notte, al generale era capitato di percepire, attraverso lo scrosciare della pioggia, il rullo di un tamburo e il canto di un violino, a volte gioioso e a volte malinconico, alla maniera in cui si suona in queste regioni».
La scrittura di Kadare era e resta proprio come quel canto, gioioso e malinconico al contempo, limpida e sospesa, ma soprattutto universale come Dante.
[Di Tommaso Pincio – da Il Manifesto del 2 luglio 2024]